L’agonia chimica di Gabes, sepolta da inquinamento e menzogne

 

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Bernardo Severgnini

Uno dei principali problemi della Tunisia moderna, come di tutti i paesi di recente industrializzazione, è l’inquinamento. Un problema tra i più gravi e urgenti da risolvere, ma che in questo paese non è sufficientemente affrontato dal dibattito pubblico. Un problema che soprattutto nella città di Gabes ha raggiunto dimensioni ormai ben al di fuori dei limiti della sopportabilità e che pare tuttora in fase di peggioramento.

In occasione di una conferenza organizzata dal Dipartimento di Italiano dell’Università di Lingue di Gabes, ho voluto approfondire la questione, concentrandomi in particolare sul ruolo dell’Italia, sulla cooperazione tra i due paesi in tema di salvaguardia dell’ambiente, per capire quali fossero le strategie e le forze messe in atto per affrontare il problema, quali i risultati ottenuti e quali i programmi per il futuro.

Ho scoperto che non solo nulla di concreto è stato fatto nonostante i numerosi accordi e impegni presi anche a livello internazionale, ma anche che non esiste la volontà politica, da parte di nessuna delle istituzioni interessate, di attuare dei piani concreti di lotta all’inquinamento e di fermare quello che ormai è stato definito come “genocidio chimico” nella città di Gabes.

LA SITUAZIONE A GABES

Sul sito internet del Group Chimic Tunisien si legge: Parallèlement au développement de l’industrie phosphatière en Tunisie et afin de satisfaire les normes nationales et internationales les plus strictes en matière de protection de l’environnement, le GCT a mis au point un vaste programme de lutte contre la pollution dans tous les centres de production visant à contenir les rejets atmosphériques et solides.

Nonostante i generosi sforzi compiuti dall’azienda, però, noi oggi stiamo parlando di una delle città più inquinate dell’intero bacino del Mediterraneo. Da quando è stato aperto il Gruppo Chimico Tunisino, negli anni 70, in questo territorio si già è estinto oltre il 60% delle specie viventi di mare e di terra, vegetali e animali, che da milioni di anni abitavano il luogo, compresi due terzi delle palme da dattero presenti 40 anni fa, e comprese specie endemiche che ora sono estinte per sempre dalla faccia della terra. Per quanto riguarda gli esseri umani, le cose non vanno molto meglio: i dati statistici sanitari relativi all’area di Shott el Salam sono da guerra nucleare: 11,5% di famiglie interessate da casi di cancro direttamente collegabili all’attività del GCT, e un altro 17,6% afflitto da altri disturbi cronici come osteoporosi, asma, problemi cardiaci sempre dovuti all’inquinamento. Il 60% di coloro che si sono sottoposti a esami clinici riscontra una concentrazione di fluoro superiore alla norma. Si contano, solo nella città di Gabes, 114 diversi tipi di cancro causati dall’attività della fabbrica (fonte: Memoriente 2013). Sono cifre che, per intenderci, fanno impallidire quelle del rione Tamburi a Taranto, o quelle di Civitavecchia o Porto Marghera.

Per quanto riguarda l’economia, le attività locali della città di Gabes sono state completamente distrutte. La pesca, che riforniva tutta la nazione tunisina, è stata completamente azzerata a causa degli scarichi industriali in mare del Gruppo Chimico. L’agricoltura è finita perché l’attività industriale consuma il 75% delle risorse idriche d’acqua dolce presente nel territorio, il territorio è in fase di desertificazione e i terreni superstiti sono irrimediabilmente contaminati. Per non parlare del turismo, di cui si sono perse le tracce: una città ricca di storia e di natura, con delle potenzialità enormi, è stata invece consacrata all’industria e alla distruzione.

 

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In nome di che cosa? Quali sono i reali vantaggi per la città? In cambio delle malattie, della distruzione e in sostanza della morte della città, Gabes al giorno d’oggi impiega 4800 lavoratori nel GCT su un totale di 120.000 abitanti (che salgono a quasi 200.000 se si considerano i centri limitrofi). Il vero vantaggio è per lo Stato, che ottiene da questa fabbrica una percentuale a due cifre del proprio prodotto interno lordo, soldi che al giorno d’oggi servono soprattutto per pagare i debiti con le banche internazionali, ma sulla città la ricaduta economica è assai discutibile: una parte della popolazione ha trovato lavoro, il resto l’ha perso, e subisce soltanto gli effetti devastanti della fabbrica sulla propria salute e sul proprio stile di vita.

Nonostante questo, un posto di lavoro in questa fabbrica resta ambito per la popolazione. Perché?  Un operaio del GCT riceve un salario ben più alto della media, ma soprattutto lo stato offre bonus di ogni tipo ai lavoratori della fabbrica: bonus per far studiare i figli, bonus per sconti sui prodotti alimentari, e naturalmente offre le cure sanitarie gratuite a coloro che si ammalano. Questi sono i sistemi che vengono usati per comprare l’approvazione della popolazione e per scongiurare le sollevazioni popolari. La maggioranza della popolazione infatti è totalmente insoddisfatta dell’operato del governo in questa situazione, e lo esprime quotidianamente attraverso l’associazionismo e anche attraverso forme di arte e di cinematografia, ma le poche timide azioni di forza tentate dai cittadini si sono concluse con assolutamente nulla di fatto. Per cui, la strategia di captatio benevolentiae dei vari governi di questi 40 anni si è sempre rivelata efficace. E questa ancora oggi è l’unica reale strategia politica in tema ambientale da parte della Tunisia.

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Crèdit photo: Radio Express FM

ACCORDI INTERNAZIONALI

In realtà la Tunisia, come tutti gli altri paesi mediterranei, si era impegnata a combattere il problema dell’inquinamento sottoscrivendo accordi a partire dalla Convenzione di Barcellona del 1976. La Convenzione di Barcellona è lo strumento giuridico e operativo delle Nazioni Unite nell’ambito della protezione ambientale del Mediterraneo.  Già negli anni 70 si iniziano a percepire i possibili danni di una troppo eccessiva attività industriale, ma mentre si sottoscrivono questi impegni internazionali che prevedono particolare attenzione alla regione costiera, a Gabes viene aperto il complesso industriale di cui sopra, quindi si fa esattamente il contrario. Come esattamente al contrario è stato applicato l’altro importante principio introdotto dalla convenzione di Barcellona: quello del “chi inquina paga”. Qui è l’opposto: chi inquina guadagna.

La Tunisia poi sottoscrive nel 1982 la Convenzione dell’ONU sul diritto del mare, dove si esprime come priorità la cooperazione tra paesi limitrofi per realizzare piani di sviluppo organici. Ma nulla accade. Sottoscrive poi ben 2 protocolli di Madrid, nel 94 e nel 2008, in epoca Ben Ali. Ecco alcuni degli impegni presi a Madrid e mai attuati:

Articolo 5: Occorre agevolare lo sviluppo sostenibile delle zone costiere attraverso una pianificazione razionale delle attività, in modo da conciliare lo sviluppo economico, sociale e culturale con il rispetto dell’ambiente e dei paesaggi; occorre preservare le zone costiere a vantaggio delle generazioni presenti e future; occorre garantire l’utilizzo sostenibile delle risorse naturali, e in particolare delle risorse idriche; occorre assicurare la conservazione dell’integrità degli ecosistemi, dei paesaggi e della geomorfologia del litorale.

Articolo 6: Occorre tener conto in maniera integrata di tutti gli elementi connessi ai sistemi idrologici,  ecologici, socioeconomici e culturali, in modo da non superare la capacità di carico delle zone costiere; occorre garantire una governance appropriata, che consenta alle popolazioni locali e ai soggetti della società civile interessati dalle zone costiere una partecipazione adeguata e tempestiva nell’ambito di un processo decisionale trasparente; occorre prevenire i danni all’ambiente costiero e, qualora essi si verifichino, provvedere a un adeguato ripristino.

Articolo 9: In conformità degli obiettivi e dei principi del presente protocollo e tenuto conto delle pertinenti disposizioni della convenzione di Barcellona e dei relativi protocolli, le parti provvedono affinché, nelle varie attività economiche, si riduca al minimo l’uso delle risorse naturali e si tenga conto delle esigenze delle generazioni future; provvedono affinché l’economia marittima e costiera rispetti la fragile natura delle zone costiere e le risorse del mare siano preservate dall’inquinamento; le parti convengono, per quanto riguarda la pesca, di tener conto della necessità di proteggere le zone di pesca nella realizzazione di progetti di sviluppo; le parti inoltre si impegnano a promuovere la cooperazione regionale e internazionale per l’attuazione di programmi comuni di protezione degli habitat marini

Articolo 29: Le parti possono concludere accordi bilaterali o multilaterali ai fini dell’efficace applicazione del presente protocollo.

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Vediamo nel dettaglio come si articola questa collaborazione con l’Italia: il primo accordo di collaborazione specifica Italia-Tunisia risale al 2004, quando con un documento congiunto le due parti si impegnano a collaborare per ridurre l’impatto ambientale costiero.

Nel 2008 l’Aremedd, un’associazione tunisina per lo sviluppo sostenibile, organizza una conferenza a cui partecipano le più alte autorità italiane e tunisine. Il presidente dell’Aremedd è Mohamed Mlika, un ministro del governo Ben Ali, il quale dichiara:

«questo incontro sottolinea l´importanza che noi diamo insieme alla protezione del Mediterraneo contro tutte le forme di inquinamento per la preservazione della biodiversità marina, la protezione del litorale contro l´erosione e per l´educazione ambientale».

Il ministro Mlika arriva persino a concludere che «La Tunisia accorda una grande importanza alla protezione del litorale. Tutte le città costiere tunisine sono equipaggiate con una rete igienica e una stazione di depurazione per evitare gli scarichi in mare”.

Naturalmente, oltre a queste menzogne, nessuna iniziativa è stata presa in questo senso in collaborazione con l’Italia. Non solo: nessun progetto è mai stato presentato a Gabes, che è la città più problematica della Tunisia dal punto di vista ambientale, e il tema non è al momento all’ordine del giorno, come ci confermano dall’Ambasciata italiana.

Nel 2011, il nuovo governo italiano e il governo provvisorio tunisino firmano un piano di collaborazione, attraverso il ministro per l’Ambiente Corrado Clini e il suo omologo tunisino Mamiya El Banna, e il ministro dell’industria Mohamed Amine Chakhari . Questo piano però non riguarda l’inquinamento del mare, ma solo la creazione di impianti per la produzione di energie rinnovabili. Il punto di riferimento di questa collaborazione è il Medrec: “Centro mediterraneo per le energie rinnovabili”, che a detta del sito del ministero italiano costituisce il migliore esempio di collaborazione in tema ambientale tra un paese della sponda nord e uno della sponda sud del Mediterraneo. In cosa consiste questo Medrec?  Consiste nel coordinamento di una serie di investimenti, finanziati dalla commissione europea e dalla banca mondiale, per progetti che coinvolgono aziende private italiane del settore ambientale, come ad esempio la veneta Carbonfootprint, che occupa 15.000 dipendenti in Tunisia,  quasi tutti concentrati nella regione di Monastir. Si tratta dunque di impianti industriali che producono pannelli solari ed altre forme di energia rinnovabile. Un business non da poco per l’imprenditoria privata italiana, ma una soluzione senz’altro insufficiente per i veri problemi ambientali in Tunisia: le energie rinnovabili sono senz’altro preferibili ai combustibili fossili, ma i problemi più urgenti per la Tunisia oggi non sono certo quelli del surriscaldamento globale, e la regione più interessata da questi problemi non è certo la regione di Monastir…

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BUSINESS

Possiamo tranquillamente affermare che il poco che si sta facendo nel settore ambientale in Tunisia non si stia facendo per risolvere i veri problemi ambientali del paese e neanche per adempiere agli impegni sottoscritti in ambito internazionale in questo senso, ma più che altro per logiche di business e di strategie imprenditoriali di aziende per lo più italiane ed europee che non hanno certo particolarmente a cuore i problemi della Tunisia. Naturalmente la cosa non riguarda solo l’Italia, perché ad esempio sulla pagina Facebook del partito di Ennahdha si legge che la Deutsche Bank e la French Development Agency investiranno 400 milioni di dinari in un progetto di riqualificazione ambientale a Sfax. Ci si chiede se le banche facciano questo per filantropia o per che cosa, ma non dev’essere difficile immaginarlo. Il progetto in questione si chiama TAPARURA. Gli è stata dedicata anche una pagina Wikipedia, dove si legge che il piano è di trasformare una zona di 420 ettari, danneggiata da rifiuti tossici di tipo industriale (soprattutto fosfogesso e metalli pesanti), in un quartiere urbano e turistico. Il progetto Taparura è stato immaginato nel 1985 ma la sua realizzazione è cominciata nel 2006, con le prime opere di bonifica. Il progetto finale prevede la trasformazione dell’area in un parco urbano, una spiaggia di 3 km, oltre a zone residenziali, commerciali e uffici.

Naturalmente questi progetti rappresentano investimenti fruttiferi per aziende e agenzie immobiliari straniere. Lo stesso concetto è confermato dal ministero dell’ambiente tunisino per quanto riguarda la cooperazione italiana: il dirigente Youssef Zidi ci dice che la cooperazione italiana si prenderà l’impegno di finanziare interamente alcuni progetti in territorio tunisino, ma che questo non sarà precisamente un “regalo”, in quanto costituirà un investimento redditizio per le aziende italiane coinvolte nel progetto e anche per i loro dipendenti, operai, tecnici e ingegneri, che saranno tutti italiani.

INEFFICACIA

Questi progetti così remunerativi in realtà hanno scarsa efficacia per la salvaguardia reale dell’ambiente, anche perché vengono svolti nei posti sbagliati, quelli in cui il problema ambientale è meno grave, mentre i luoghi più problematici sono tenuti fuori, specie se in questi luoghi esistono attività industriali, come nel caso di Gabes.

Un’altra dimostrazione in questo senso ci arriva dall’Ambasciata italiana a Tunisi: il responsabile della cooperazione Luca Perugini ci informa che nel 2013 sono partite delle gare di appalto per stabilire chi si debba occupare della messa in atto dei progetti ambientali. Perugini tiene a sottolineare che “Gli esiti e le tempistiche delle procedure in corso sono soggette alle competenze dell’ente appaltante. Mi rincresce altresì informarla che il progetto di cooperazione intergovernativa non ha previsto interventi diretti nella zona di Gabes”.

In sostanza non solo a Gabes non è stato fatto nulla, ma non c’è nemmeno in programma di fare nulla. Non sono ancora partite gare d’appalto per mettere in atto alcunché nella zona. L’ambasciata italiana è consapevole del fatto che i problemi di Gabes sono più importanti di qualsiasi altra città tunisina, ma precisa che è compito del governo tunisino segnalare quali siano le aree in cui la cooperazione italiana può intervenire. Poiché il governo non ha segnalato l’area di Gabes, nessuna attività può essere svolta da parte della cooperazione internazionale.

Il governo tunisino quindi omette di segnalare l’area di Gabes tra quelle più bisognose di interventi urgenti in materia ambientale. Tutto questo nonostante l’Art. 18 del Protocollo di Madrid  affermi che: “La strategia nazionale, basata sull’analisi della situazione esistente, definisce gli obiettivi e stabilisce priorità debitamente motivate, e identifica gli ecosistemi costieri che necessitano di una maggiore gestione”

 

Nella realtà l’area di Gabes è tenuta accuratamente al di fuori dai programmi ambientali e persino dal monitoraggio ambientale. L’unico documento che ha prodotto il Ministero dell’Ambiente tunisino riguardo alla città di Gabes è un documento di 5 pagine prodotto nel 2013 nel quale si descrive un vago progetto che dovrà essere attuato nel futuro. Questo progetto, molto rispettoso e ossequioso dell’attività del GCT, ha come obiettivo il monitoraggio dei danni ambientali e lo studio di sistemi per ridurre l’impatto ambientale dell’attività industriale. Nessuna misura concreta è mai stata presa e in questo documento non è specificato nemmeno il crono programma delle attività, per cui non è indicato nemmeno il periodo di inizio dei lavori.

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Manifestazione a Tunisi contro l’inquinamento a Gabes Crédit photo: radio Mosaique FM

 

SANZIONI? MACCHE’…

Siamo di fronte alla dimostrazione che l’impegno a favore dell’ecologia è totalmente subordinato alle esigenze del settore produttivo. Ci si ostina in pratica a perseverare con il modello che sta causando la distruzione della vita in questa città. Gli impegni presi e i protocolli firmati sono soltanto operazioni di immagine che nascondono una realtà completamente diversa, una realtà tragica, della quale i paesi occidentali e l’Italia in primis sono assolutamente complici se non artefici.

 

Innanzitutto, a Madrid 2008 non sono state previste per la Tunisia e per i paesi arabi del mediterraneo organismi che possano obbligare questi paesi ad onorare gli impegni presi e a sanzionarli in caso contrario. Tant’è vero che il ministero dell’ambiente tunisino, all’interno di un progetto per la salvaguardia delle oasi co-finanziato dalla Germania, scrive che Tunisia e Germania stanno collaborando alla creazione di un organismo istituzionale di supervisione, che abbia il potere di sanzionare i comportamenti inadeguati e di far rispettare il principio del “chi inquina paga”. Al momento questo organismo non esiste, quindi le aziende pubbliche e private che inquinano non corrono nessun pericolo. Finché non verrà creato un organismo del genere, non si vede come si possa indurre i governi a rispettare gli impegni presi.

 

E la creazione di un tale organismo, in effetti non conviene a nessuno. Non conviene alla Tunisia, che in quel caso sarebbe costretta a investire grandi capitali nella riconversione industriale, e sarebbe costretta a limitare di molto la produzione a Gabes. Ma non conviene neanche all’Europa, che è il primo partner commerciale del Gruppo Chimico Tunisino, come ci confermano dalla sede centrale dell’azienda, a Tunisi.

La responsabile commerciale del GCT con l’Unione Europea, madame Samira Labassi, ci informa che, solo per quanto riguarda l’Italia, ci sono due grandi aziende del settore alimentare (di cui però non ci può rivelare il nome, e anche questo è abbastanza significativo) che acquistano annualmente stock da oltre 100 mila tonnellate di fertilizzanti.  L’Italia quindi ha l’interesse strategico  alla continuazione indisturbata dell’attività del GCT.

CHE FARE?

Per concludere sulla cooperazione ambientale tra Italia e Tunisia, da una parte abbiamo molti proclami, molti impegni firmati, molti accordi di collaborazione. Ma nella pratica, questa collaborazione, per altro al momento solo sulla carta, riguarda esclusivamente attività per le quali l’Italia ha intravisto un ritorno economico. I problemi principali non sono all’ordine del giorno, perché andrebbero a intaccare il sistema industriale tunisino. Nulla è stato fatto a livello legislativo per contrastare efficacemente le attività inquinanti. Al contrario, esiste una “cooperazione a delinquere”, cioè rapporti commerciali intensi con le attività produttive che stanno uccidendo il paese, e una complicità nel proseguire questo processo di distruzione dell’ambiente.

Di fronte a ciò, il buon senso induce a non aspettarsi nulla di buono per il futuro da parte delle autorità e delle istituzioni, né da quelle nazionali, né da quelle internazionali, né dai rapporti bilaterali e multilaterali con altri paesi. La società civile e i cittadini della città, pertanto, possono contare solo su loro stessi, sulla propria determinazione e sulla propria capacità organizzativa, al di fuori delle istituzioni,  se vogliono difendere il proprio diritto alla vita e alla salute.

 

10 Dicembre 2014