Tunisia:Il ruolo ambiguo della rete

Patrizia Mancini

Durante la rivolte di dicembre 2010 e gennaio 2011 che hanno portato alla cacciata del dittatore Ben Alì, Facebook ha rappresentato per i tunisini un formidabile mezzo di comunicazione fra attivisti e una fonte insostituibile di immagini e notizie per noi europei che seguivamo con apprensione gli avvenimenti nelle varie zone del paese. Due milioni di internauti tunisini (su nove milioni di abitanti)erano sul social network più famoso al mondo e ad oggi il loro numero sembra costantemente in crescita. Così come purtroppo in crescita appare l’uso del mezzo come diffusore di intox (notizie false) immagini ritoccate al photoshop per denigrare l’avversario politico, insulti di ogni tipo e attacchi di hacker alle pagine sgradite.

Di conseguenza, è bastato poco a Mohamed Alì Bouazizi, (nessuna parentela con l’ambulante immolatosi il 17 dicembre 2010 a Sidi Bou Zid)di mestiere usciere notarile, per aizzare i salafiti contro l’esposizione al palazzo  Abdellia a la Marsa, banlieue nord di Tunisi: dopo aver fotografato alcune delle opere che stigmatizzavano l’estremismo religioso e i suoi aspetti più retrivi nei confronti delle donne e riprodotto immagini di quadri non esposti in Tunisia, gridava all’offesa del sacro sulla sua pagina Facebook e incitava a punire i miscredenti. Intanto, il 10 giugno in un video pre-registrato il leader di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, attaccava Ennahdha per il suo “islam annacquato” e incitava i credenti tunisini a rivoltarsi contro il governo.

E’ cosi che nella notte fra l’11 e il 12 giugno la Tunisia ha rivissuto l’incubo della violenza scatenatasi in particolare in alcuni quartieri popolari della Grand Tunis come Cité Intilak e Ettadhamen ad opera di “barbuti” in abbigliamento talebano, ma anche di delinquenti comuni contro posti di polizia, tribunali, abitazioni private, camion che trasportavano birra e infine anche a La Marsa per sfregiare alcune delle opere esposte. Ancora su Facebook (che alcuni ormai definiscono come l’elemento destabilizzatore per eccellenza in Tunisia) venivano rimescolate sequenze degli scontri fra polizia e manifestanti durante i moti dell’anno scorso, facendoli passare per nuove sparatorie “à balles réels” sui figli di Allah. Anche a Sousse una manifestazione di salafiti o presunti tali attaccava a molotov e getti di pietre la polizia che sparava e feriva un giovane, poi spirato in ospedale. Nel succedersi frenetico degli avvenimenti, il governo instaurava il coprifuoco in alcune zone e il ministro della cultura Medhi Mabrouk (che a suo tempo lasciò velocemente un partito di centro-sinistra nel momento in cui il partito di Ennahdha prendeva il potere) faceva chiudere l’esposizione di la Marsa e sproloquiava di limiti che i valori sacri devono porre all’arte sulle onde di una popolare radio. A confronto con  Amor Ghedamsi, segretario generale del sindacato degli artisti e pittore lui stesso, il ministro faceva peraltro una figura meschina citando alcuni quadri che in realtà non erano esposti in Tunisia, bensì in Senegal.

Infine, sia il partito Ennahdha che Ansar Charia (salafiti jihadisti) indicevano una manifestazione per la difesa dei valori islamici (il primo)e per l’applicazione della chaaria (il secondo) sull’avenue Bourghiba il 15 giugno. Una miscela esplosiva e un piatto succulento per i media occidentali.

Invece, in un tardivo sussulto di fermezza, il ministro degli Interni Ali Laâridh, vietava qualunque manifestazione, la polizia arrestava quasi 200 “salafiti” e il presidente del comitato scientifico della moschea Zitouna (al centro di Tunisi), Houcine Laabidi, veniva deposto dal suo incarico, dopo aver incitato nel suo sermone del venerdì all’uccisione di tutti gli artisti profanatori dell’Islam.

I salafiti e i delinquenti loro fiancheggiatori si rendevano conto di non godere questa volta di nessuna immunità e si guardavano bene dallo scendere in piazza.

A questo punto occorre estrapolare alcuni elementi chiave per cercare di comprendere come si è arrivati a questa delicatissima fase e a individuare la vera posta in gioco.

Innanzitutto, all’interno del partito islamico al governo si combattono diverse correnti, salvo che a differenza di altri partiti, quasi nulla traspare all’esterno. Il ministro degli Interni sarebbe fortemente in contrasto con personaggi del suo stesso partito più vicini ai salafiti. Nello stesso tempo, Ennahdha ha finora portato avanti un gioco ambiguo e pericoloso con elementi dell’ex partito di Ben Alì che sono stati inseriti nella compagine governativa e a capo di alcuni media come la televisione nazionale sia per le loro competenze (che mancano del tutto al partito islamico) che per averli sotto controllo. Ora Ennahdha sta pagando a caro prezzo sia la sua compiacenza verso le sue frange più estreme e la mouvance salafita, sia la collaborazione con gli elementi dell’ex regime. Senza che l’Assemblea Costituente abbia terminato la scrittura della nuova Costituzione e avvicinandosi alla data delle nuove elezioni con un bilancio fallimentare a tutti i livelli.

Lo stesso provocatore di Facebook, Mohamed Alì Bouazizi , secondo fonti credibili come il sito “Business News.com”, sarebbe un ex membro del l’RCD (il partito di Ben Alì), a suo tempo implicato in storie di corruzione.

E’ accertato come, nei disordini della scorsa settimana, siano stati individuati anche delinquenti comuni coinvolti nel contrabbando che dopo la rivoluzione è rifiorito, grazie ai legami che Leila Trabelsi, consorte dell’ex dittatore, avrebbe mantenuto in Tunisia e che ha provocato gravi out of stock a livello di generi di consumo anche basilari e l’aumento dei prezzi al dettaglio.

Last but not least, mentre alcuni tunisini comincerebbero a rimpiangere il vecchio regime, ecco che al termine della settimana di passione appare l’elemento salvifico nella persona di Beji Caid Essebsi, ex premier del governo di transizione post-rivoluzionario che fonda Nida’ Tounes (Appello alla Tunisia) , un nuovo partito che chiama a raccolta personalità del vecchio partito del Destour (in seguito divenuto RCD) per far tornare l’ordine nel paese e garantire una democrazia a standard internazionali.

Insomma, mentre i giornali europei gridano al pericolo islamico, il vecchio RCD torna (o non è mai sparito?) alla ribalta sotto varie forme, mentre la variante di disturbo salafita distoglie l’attenzione dai veri problemi del paese: la crisi economica, l’indipendenza della magistratura, una giustizia transizionale non trasparente, ma soprattutto il non raggiungimento degli obiettivi della rivolta (possiamo ancora definirla rivoluzione?) contro il regime di Ben Alì: dignità, libertà e lavoro.

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