Rivoluzioni arabe e cliché

 

Mario Sei, Santiago Alba Rico, Sondes Bou Said, Patrizia Mancini, Hamadi Zribi

Per chi vive, lavora o frequenta in modo assiduo paesi come Tunisia ed Egitto, indipendentemente da quelli che sono i propri orientamenti politici, è pressoché una costante rendersi conto dell’enorme divario esistente tra la realtà vissuta e la realtà che di questi paesi viene rappresentata dalla maggior parte dei media occidentali.

Lo scarto tra realtà e sua rappresentazione è certo qualcosa di fisiologico. Rappresentando si seleziona, si sceglie, si isolano fatti o eventi che nelle pieghe della vita sono sempre intrecciati ad altri, sono mescolati ad una complessità che nessuna rappresentazione o racconto potrà mai restituire nella sua integralità. Anche nel caso di un paese in guerra è evidente che, per gli umani che vi si trovano in mezzo, non tutto è guerra e dolore: un sorriso continuerà ad affiorare sulle labbra di qualcuno, degli amanti continueranno a baciarsi, dei bambini continueranno a giocare. E sarebbe certo assurdo accusare di infedeltà ai fatti qualcuno che dedicandosi a informare e a raccontare le vicende di quel paese omettesse di ricordare i sorrisi, i baci degli amanti, i giochi dei bambini.

E’ tuttavia possibile, e anche necessario, distinguere tra buona e cattiva informazione, tra corretta e falsa rappresentazione della realtà e il lessico ci offre un’ampia gamma di termini per poter operare questa distinzione. Oltre alla falsificazione pura e semplice dei fatti, esistono altre modalità per produrre visioni distorte del reale: la manipolazione delle informazioni, l’uso intenzionale di cliché consolidati, la demagogia. E così, per esempio, se in un paese uno scontro violento, ma isolato, tra forze politiche opposte provocasse la morte di alcune persone, sarebbe comunque falsificante parlare di guerra civile. Analogamente e scivolando nel banale, se il cliché “spaghetti e mafia” fosse applicato da qualcuno come criterio per descrivere la natura di tutti i cittadini italiani, sarebbe corretto considerare superficiale o disonesto questo giudizio.

L’esempio è certo banale, eppure è proprio con cliché banali come questo, per gli interessi manipolatori di alcuni e la pigrizia intellettuale di altri, che si è nutrito per decenni l’immaginario occidentale sul mondo arabo. Dopo il 14 gennaio 2011, data della caduta del regime di Ben Ali in Tunisia, sembrava che il muro di gomma fatto di demagogia, di stereotipi e di superficiali abitudini mentali si fosse di colpo liquefatto per far apparire una realtà che quel muro aveva sempre nascosto. E’ sufficiente tornare ai titoli dei giornali o dei servizi televisivi del 15 gennaio 2011 e confrontarli con quelli dei giorni o dei mesi precedenti per accorgersi di come, da un giorno all’altro, tutto ciò che prima era “vero” apparisse improvvisamente falso. Lo squarcio informativo apertosi inevitabilmente con la rivoluzione tunisina è però durato poco e a distanza di due anni da quel 14 gennaio, il muro di gomma sembra essersi richiuso sugli stessi cliché e la stessa demagogia.

Questo avviene un po’ ovunque, ma il panorama della situazione italiana è ancora più opaco di quello di paesi che come la Francia, per esempio, possono valersi, per varie ragioni, di un’informazione meno sterile e appiattita su stereotipi. L’appiattimento dell’immaginario collettivo su cliché prefabbricati è così diffuso che è persino divertente osservare amici o conoscenti arrivati in Tunisia che si sorprendono nel vedere un paese in cui a prevalere è soprattutto la varietà dei contesti e delle situazioni più che lo scenario immaginato per induzione, composto da salafiti e da donne col velo integrale.

Se osservare la sorpresa di coloro che costatano il divario tra realtà e sua rappresentazione può suscitare una certa ilarità, produce invece amarezza dover riconoscere il fatto che a indurre questo tipo di immaginario collettivo contribuiscano anche testate e organi d’informazione tradizionalmente collocati a “sinistra”. Il riferimento specifico è rivolto ad alcuni articoli apparsi recentemente sulle pagine de Il Manifesto e firmati da due nomi assai noti: Giuliana Sgrena e Annamaria Rivera.

Nel primo caso si tratta di un articolo pubblicato il 30 dicembre e dal titolo eloquente: Islamisti scatenati sull’identità religiosa. E oltre le «nuove» leggi c’è la minaccia della violenza e dello stupro. Facendo di casi particolari dei fatti emblematici, la Sgrena riproduce stantii stereotipi, banalizza e semplifica oltre misura una realtà estremamente più complessa e stratificata. Nell’articolo la situazione tunisina e la situazione egiziana sono inoltre presentate come identiche ed evidentemente la loro assimilazione si regge unicamente sulla matrice islamica dei due governi. In realtà né la storia né il contesto politico dei due paesi permettono una tale equiparazione, a meno che non si voglia ripetere lo schema che aveva del mondo arabo musulmano una visione “notturna”, in cui appunto tutte le vacche sono nere.

Singoli fatti, innegabilmente gravi, appaiono come la norma e quindi la Sgrena cita il caso, d’altronde ampiamente diffuso da tutti i media, della manifestante di piazza Tahrir trascinata con violenza da poliziotti che le scoprono il corpo fino al reggiseno. E che dire poi dell’informazione, di cui solo la Sgrena è a conoscenza, secondo la quale i Fratelli Musulmani sono “i garanti del sostegno economico a favore delle mutilazioni genitali femminili”. Che la violenza e l’abuso sulle donne sia pratica corrente della polizia d’Egitto e Tunisia è dimostrata, secondo la Sgrena, da un altro fatto di cronaca, avvenuto questa volta in un quartiere residenziale nella periferia di Tunisi, dove una ragazza sorpresa in macchina col suo compagno è stata violentata da tre poliziotti.

Su questo stesso caso s’attarda anche Annamaria Rivera, in un articolo apparso sempre sul Manifesto il 15 gennaio (riportato da Nenanews) e titolato Tunisia, anniversario amaro. Il caso, avvenuto lo scorso settembre, divenne famoso anche perché i poliziotti accusati contro-denunciarono la ragazza per atti osceni in luogo pubblico. Seguì quindi un processo da cui la ragazza fu prosciolta e i poliziotti definitivamente condannati. Ciò che sia la Sgrena che la Rivera omettono di raccontare è che in Tunisia l’indignazione collettiva fu imponente e che davanti al tribunale si concentrarono migliaia di persone a sostegno della ragazza. Più che per gli appelli internazionali, come sostiene Annamaria Rivera, è stata la reazione della società civile tunisina a determinare l’esito del processo. Una reazione e una capacità di mobilitazione che meritano di essere sottolineate e che sarebbero auspicabili anche in paesi non musulmani come i nostri, in cui casi di violenza e abusi sulle donne si verificano a decine, spesso nella generale indifferenza.

Nel suo articolo la Rivera si spinge però oltre e cita un altro fatto, diffuso sulle pagine di Facebook e rivelatosi poi totalmente inventato, di due giovani arrestati e condannati a due mesi di prigione per essersi dati un bacio in strada. In questo caso l’errore non è solo quello di diffondere falsità, ma anche di riportare mezze notizie. A seguito di quella falsa informazione infatti, estesasi a macchia d’olio, centinaia di persone si sono ritrovate in una piazza del centro di Tunisi per un bacio collettivo, e questo senza che ci fosse repressione alcuna da parte della polizia.

Concentrandosi unicamente sulla Tunisia, la Rivera insiste giustamente sulla difficile situazione economica, sull’aumento della disoccupazione e del costo della vita dovuto all’alta inflazione. Aspetti innegabili, ma rappresentare l’anniversario della rivoluzione come un funerale è assolutamente fuorviante, così come è snobismo intellettuale ritenere che la “conquista del bla-bla”, cioè del “piacere di conversare liberamente, di dire tutto e qualsiasi cosa senza sentirsi spiati”, -citazione che la Rivera riprende da un noto giornale in rete tunisino- sia ben poca cosa.

Merita la citazione un altro giornale in linea, Mag14, che come il Nawaat citato dalla Rivera è stato creato da un gruppo di giovani giornalisti: “Due anni dopo la fuga del dittatore, la società civile tunisina è in ebollizione. Intellettuali e giovani pubblicano articoli al vetriolo, criticano ministri e forze dell’ordine, denunciano la corruzione, creando una dinamica che la Tunisia non ha conosciuto nemmeno durante il momento dell’Indipendenza. Si tratta di tante rondini annunciatrici di una vera Primavera ancora a venire, ma di cui i primi fiori cominciano a germogliare, nella discrezione e nella generale confusione. E non fosse che per questo, Viva la Rivoluzione”.

Per evitare eventuali equivoci, va chiarito che non si tratta certo di difendere né il governo dei Fratelli Musulmani in Egitto né quello di Nadha in Tunisia, che anzi restano allineati sulle classiche ricette neo-liberali, dimostrandosi incapaci di affrontare le gravi ingiustizie e disparità sociali che sono state la causa prima delle rivolte. La critica ai governi, giusta e necessaria, non può però risolversi nel dualismo laici-religiosi e nemmeno nell’idea che di quell’ondata rivoluzionaria, cominciata il 14 gennaio 2011, non sia rimasto nulla e a che a nulla abbia portato, se non a un semplice cambio di potere.

Dal 26 al 30 marzo si svolgerà a Tunisi il 12° Forum Sociale Mondiale e Annamaria Rivera conclude il suo articolo augurandosi che l’occasione si sottragga al rischio d’essere usata come fiore all’occhiello del nuovo regime. Perché questo non avvenga è anzitutto necessario che chi si occupa, per mestiere o per diletto, di informare e di raccontare lo faccia con il giusto rigore e senza riprodurre vecchi cliché che tanti danni hanno già prodotto in passato.

http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=48001&typeb=0&Loid=200&Rivoluzioni-arabe-e-cliche

La risposta di Annamaria Rivera:http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=48459&typeb=0&Loid=200&Tunisia-risposta-alle-accuse-di-falsita

La nostra ulteriore replica:http://www.tunisia-in-red.org/?p=2531