Santiago Alba Rico, Mario Sei, Patrizia Mancini, Hamadi Zribi, Sondes Bou Said
Durante gli ultimi decenni, come sappiamo, i mezzi di comunicazione occidentali, a volte per semplice superficialità commerciale, altre perché mossi da premeditati scopi manipolatori, hanno alimentato una visione schematica e negativa del mondo arabo, identificandolo con l’islamismo fanatico e col terrorismo. Come ha ben dimostrato, tra gli altri, Edward Said, conoscere significa innanzitutto costruire ed è per questo che conoscenza e potere sono indissolubilmente collegati. In un contesto di colonizzazione politica ed economica è utile costruire un altro semplificato che sia facilmente manipolabile e che sia quindi legittimo – se necessario – distruggere. Il modello è noto e consueto. Si tratta di far apparire l’altro davanti ai nostri occhi – gli occhi del lettore occidentale – appunto come altro, cioè come unità negativa inassimilabile.
Nel caso del mondo arabo, l’islam è sempre stato presentato come forza omogenea e assorbente, ignorando non solo la molteplicità di credenze e pratiche (dal wahabismo al sufismo), ma anche le forti divisioni e conflitti tra di loro. Gli stessi europei che considererebbero con sufficienza un arabo che non sapesse distinguere tra cattolici e protestanti, giudicano irrilevante o inesistente la differenza, per esempio, tra sciismo e sunnismo. Questa omogeneità – l’islam – è stata inoltre sistematicamente descritta come minacciosa e negativa, dichiarandola incurabile e inassimilabile. S’insisteva quindi sull’incompatibilità tra islam e democrazia, da cui derivava la convinzione che gli arabi fossero incapaci di governarsi da soli senza la tutela di una potenza straniera e/o di un despota locale.
Senza ottenere grandi risultati, la sinistra ha però sempre denunciato questa visione superficiale e interessata, non solo perché inesatta e schematica, ma perché l’inesattezza e la schematizzazione hanno sempre avuto effetti politici devastanti. Inutile qui ricordare le guerre che sono state legittimate da questa visione islamofobica o le numerose dittature sostenute in nome del pericolo islamista, e di cui la Tunisia,d’altra parte, è un caso paradigmatico. E’ inoltre questa stessa visione che ha alimentato il razzismo degli europei nei confronti degli immigrati che a Parigi, Roma o Madrid partecipavano alla crescita economica e chiedevano il rispetto dei più elementari diritti civili.
I tre effetti devastanti citati – invasioni, dittature, razzismo – hanno a loro volta prodotto un risultato prevedibile, ciò che nelle scienze sociali è conosciuto con l’espressione di “profezia auto-realizzantesi”: la radicalizzazione di una parte, comunque minoritaria, dei popoli colpiti.
Il paradigma descritto crollò improvvisamente nel gennaio 2011, quando la rivoluzione tunisina obbligò i media occidentali a scoprire – con sorpresa – due realtà inseparabili e fino allora taciute: l’esistenza di dittature e l’esistenza dei popoli della regione. La sorpresa maggiore fu che questi popoli, sollevatisi contro i dittatori, non reclamavano l’applicazione della charia e nemmeno la creazione di stati islamici: chiedevano pane, giustizia, libertà, lavoro, dignità. La sorpresa fu così grande che, per un breve periodo, si produsse quasi un ribaltamento del discorso, accompagnato da un entusiasmo spesso poco realista: la fine della “eccezione” araba, la morte di Al-Qaida, il trionfo del laicismo. Sul campo, le distinte velocità dei processi aperti in tutto il mondo arabo, insieme alla controffensiva coloniale, con l’intervento in Libia e l’agonia della Siria, hanno condotto alla situazione in cui ci si trova ora: due paesi in fase di transizione (Egitto e Tunisia) governati da islamismi “democratici”, una generale riattivazione, violenta o meno, di ciò che gli stessi media chiamano “salafismo”e una mobilizzazione senza precedenti di giovani generazioni che hanno perso la paura e non tollereranno un ritorno al dispotismo.
Quel che è certo è che la rivoluzione tunisina avrebbe dovuto produrre, sperando in trasformazioni future più profonde, almeno due effetti salutari: una normalizzazione mediatica e una normalizzazione politica. Per realizzare la prima è necessario ci sia una maggiore attenzione ai processi reali in Nord Africa e nel Medio Oriente, un riconoscimento delle molteplici voci e sensibilità che popolano la regione e un esercizio ulteriore di rigore e di documentazione.
La normalizzazione politica implica invece un “riconoscimento” delle forze che sono state lungamente represse e tra loro quella che – per ragioni storiche complesse – è divenuta maggioritaria: l’islamismo. Ci sono solo due modi per combattere l’islamismo politico: il primo è la dittatura e la guerra, il secondo è la sua integrazione nei processi di governo. Dopo più di vent’anni dal colpo di stato in Algeria sappiamo che la prima soluzione, oltre a essere mostruosa, è inefficace. Il danno che le dittature hanno fatto ai popoli – e alla solidarietà internazionale tra i popoli – non ha indebolito, ma al contrario rafforzato l’influenza dell’islam politico. E tuttavia, la cosiddetta “primavera araba” ha alterato il suo programma, le sue procedure e i suoi obiettivi. In Tunisia nessuna delle forze politiche organizzate – né l’Ugtt (la forte centrale sindacale) né Nahda (il partito islamista) né la sinistra – può arrogarsi la rappresentazione della rivoluzione che destituì Ben Ali. Nessuno può però stupirsi che Nahda abbia vinto le elezioni dell’ottobre 2011. L’elemento veramente importante è che lo slancio rivoluzionario continui a vivere al di fuori delle nuove istituzioni e che Nahda sia obbligata a negoziare, a rinunciare pragmaticamente ad alcuni presupposti della propria ideologia e a rispondere alla maggioranza della popolazione che continua a reclamare pane, lavoro, giustizia, libertà. Non c’è una “dittatura” islamica in Tunisia e questo indipendentemente dalle reali intenzioni della componente wahabita di Nahda e del suo leader Rachid Ghanouchi. Ciò che al contrariosi è realizzato, dopo un anno di governo, è una sensibile perdita di consensi da parte del partito islamista e degli altri due partiti che compongono la coalizione di governo.
Il paradosso, in tutto questo, è che la relativa normalizzazione politica ha in un certo senso compromesso la normalizzazione mediatica. Il trionfo di Nahda in Tunisia e dei Fratelli Musulmani in Egitto ha ristabilito vecchie abitudini mentali e riattivato cliché distruttivi. Dopo pochi mesi d’idillio, i mezzi di comunicazione occidentali hanno riproposto gli antichi modelli di costruzione dell’altro, in un rapidissimo passaggio dall’entusiasmo senza fondamenti a una delusione ugualmente infondata: “dalla primavera araba all’inverno islamico”. Il problema è che questo nuovo cliché si è diffuso anche a sinistra. Ciò è dovuto in parte al fatto che la sinistra europea conosce poco e male il mondo arabo e che sia l’intervento della Nato in Libia, sia la presenza salafita in Siria rendono difficile la comprensione dei movimenti popolari. Succede anche che, nel caso della Tunisia, non solo Nidà Tunisie, Al-Joumhuri o Al-Massar, esponenti delle élites laiche pro-occidentali, ma anche componenti della sinistra locale, con cui chi firma questo testo s’identifica, contribuiscano a volte a diffondere in Europa discorsi semplificati o demagogici.
In un paese che ancora non ha scritto la propria costituzione, che mantiene intatti, o quasi, gli apparati di polizia e di giustizia e dove solo questa settimana, quindici mesi dopo le elezioni, è stato presentato davanti all’Assemblea Costituente il progetto di legge della Giustizia Transizionale, è molto difficile sapere chi detiene realmente il potere. Ciò che invece è corretto affermare è che, nonostante tutto, esiste in Tunisia un dibattito politico e una libertà d’espressione maggiore, e a volte molto più irresponsabile, che in Italia, in Francia o in Spagna. Purtroppo, in questi due anni, il dibattito si è sempre più concentrato in un conflitto dalla logica partitica ed elettorale che, in un contesto d’instabilità istituzionale, economica e sociale crescente, e con una sinistra in secondo piano, ha dato luogo a una specie di bipartitismo virtuale: neoliberalismo islamico contro neoliberalismo laico. Tutta la complessità della situazione e tutti i conflitti reali si semplificano in questa scenografia da conflitto binario tra governo e opposizione. Mentre Nahda cerca di aggrapparsi a un potere che ancora non detiene, l’opposizione cerca di ottenerlo con qualsiasi mezzo. Uno di questi mezzi è, ovviamente, la falsificazione delle informazioni e la demagogia mediatica, orientata ad alimentare l’idea che in Tunisia ci sia una “dittatura islamica”, peggiore di quella di Ben Ali, che controlla tutti i meccanismi del potere e che vuole privare le donne delle conquiste ottenute con Bourghiba, imporre il velo, proibire l’alcool, reprimere gli artisti e proteggere violentatori e salafiti. Queste campagne mediatiche, sostenute da fatti isolati o non confermati, rendono difficile la normalizzazione politica, nascondono la complessità delle relazioni di potere e allontanano l’attenzione dai veri problemi, che continuano a essere il pane, il lavoro e la dignità. Ciò che va rimproverato a Nahda, più che il suo fanatismo religioso, è il fanatismo neoliberale, la sottomissione agli interessi economici europei e il suo modello di sviluppo sociale. In questo quadro politico, che lascia pochi margini di manovra, la sinistra tunisina in alcuni casi soccombe alla tentazione di alleanze contro natura o all’uso di discorsi sommari e allarmisti.
La falsa storia dei due giovani condannati per un bacio è, in questo senso, paradigmatica. Perché una storia del genere sembri plausibile, e che in molti la credano ancor oggi vera, nonostante le smentite rese note dal 12 gennaio (http://www.assabah.com.tn/ e http://www.edito.tn/lhistoire-du-baiser-etait-inventee/) devono coincidere une serie di circostanze. Deve esserci innanzitutto un partito religioso che intende reprimere il bacio in pubblico e una legge che effettivamente lo proibisce (in Tunisia la legge esiste da ben prima la rivoluzione). Ma deve anche esserci molta gente che desidera crederci e alcune forze politiche interessate nel farlo credere. Quando si verificano tutte queste circostanze, in un contesto di acuto e spesso scorretto confronto politico, l’obbligo della stampa tunisina e internazionale, soprattutto di sinistra, è verificare la notizia prima di diffonderla, per evitare il rischio di produrre effetti politici disastrosi. Anche perché non è per nulla chiaro se la destabilizzazione di questo governo – e ancor più se usando come mezzo la manipolazione – possa favorire la sinistra o il fragile processo di democratizzazione in corso.
La rivoluzione in Tunisia non è stata fatta da Nahda, e nemmeno dalla sinistra. L’emozionante sorpresa della rivolta popolare non può farci dimenticare che non ci sono le condizioni per una rivoluzione socialista o per un’immediata trasformazione della struttura economica del paese. Raggiungere quest’obiettivo dipende dal lavoro politico e dalla coscienza della popolazione. Ma perché questo avvenga è innanzitutto necessario consolidare il quadro istituzionale democratico e impedire il ritorno della dittatura. E’ necessario, cioè, assicurare la normalizzazione politica che la dittatura impedì per decenni.
Chi firma questo e il precedente testo non pretendeva in alcun modo offendere nessuno né tantomeno aprire una sterile e dolorosa polemica ad hominem, ma semplicemente ricordare che la normalizzazione politica è inseparabile – poiché, in parte, ne è la conseguenza – dalla normalizzazione giornalistica che da sinistra dobbiamo difendere e promuovere. Diffidare dei cliché, rigore informativo, ricerca della verità, solidarietà con le vittime e, nel caso si commettano errori, coraggio per riconoscerlo. Il dibattito sui mezzi d’informazione è oggi, più che mai, in Europa come nel mondo arabo, il dibattito decisivo.
Santiago Alba Rico, Mario Sei, Patrizia Mancini, Hamadi Zribi, Sondes Bou Said
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