L’Egitto, la sinistra ed il colpo di stato

Santiago Alba Rico

Fine della storia. Torniamo alla “eccezione araba”. Mubarak, Ben Alì, Gheddafi, Assad (nonché i nostri governi ed i nostri media occidentali) avevano ragione: il mondo arabo non è democratizzabile. E la nostra sinistra, intanto, esulta per la vittoria dell’esercito.

Proverò a spiegarlo in modo più semplice. Due anni e mezzo fa, nel mondo arabo si è messo in moto un inaspettato processo di sollevazione dei popoli –chiamato talvolta “primavera araba”- che ha offerto a quella regione una modesta ma luminosa opportunità di cambiamento. La chiamerei, senza esitare, “rivoluzione”.

Non è stata una rivoluzione socialista e non è stata diretta dalla sinistra. Non è stata nemmeno una rivoluzione islamica, ed infatti gli islamici hanno avuto nell’evento un ruolo molto marginale. Ma poiché è stata una rivoluzione democratica, ha illuminato a giorno i veri rapporti di forza esistenti nell’area e repressi per decenni; le elezioni, dove ci sono state, hanno portato al governo i partiti islamisti gravitanti nell’orbita dei Fratelli Musulmani. Sia la sinistra, vetero -stalinista, sia i partiti islamisti che covavano sogni di califfato, hanno ceduto alla pressione popolare ed adottato programmi sinceramente democratici. I reduci della dittatura, a loro volta, si sono riciclati in democratici e, all’interno di organizzazioni e partiti diversi, in condizioni di libertà di espressione e di riunione senza precedenti, hanno cominciato a lavorare per riprendersi il potere.

So bene che quello che dirò non inciderà minimamente, perché le mie parole saranno comunque fraintese. Sono comunista e se c’è una cosa che mi suscita poca simpatia è proprio la combinazione di neoliberalismo economico e conservatorismo religioso.

Negli ultimi due anni non ho mai tralasciato di evidenziare, in Egitto come in Tunisia, la complicità dei Fratelli Musulmani e di Ennahda con le istituzioni finanziarie internazionali, la mancanza di un programma sociale ed economico ed il loro ricorso alle stesse tattiche repressive della dittatura. Ma ho anche insistito nel mettere in guardia contro la tentazione di combattere gli islamisti con qualunque mezzo, utilizzando alleanze innaturali con le mani sporche della dittatura oppure attraverso strategie di assedio ed annientamento. Strategie che, visti gli attuali rapporti di forza, possono favorire solo il ritorno dei vecchi e tragici modelli di gestione regionale (con la guerra civile algerina, così vicina, come ombra e monito).

Il processo che ha avuto inizio in Tunisia ha aperto uno scenario instabile e fluido, nel quale democrazia, rivoluzione ed involuzione si incontrano, si cercano, si urtano, negoziano e si combattono. A mio parere, la cosa più rivoluzionaria che si può fare oggi in Egitto, come in tutto il mondo arabo, è cercare di costruire uno Stato di diritto democratico e al contempo lavorare a medio termine –seguendo le teorie gramsciane- alla costruzione di un progetto di contro-egemonia basato sul malessere sociale.

Perché la volontà di accelerare la rivoluzione senza aver normalizzato la democrazia (che nel mondo arabo è già rivoluzionaria di per sé!) ed a dispetto dei rapporti di forza esistenti, dà vantaggio ai progetti involutivi islamofobici. Questi ultimi, in Tunisia prendono le sembianze di una “transizione pacifica verso la dittatura”; in Egitto, come stiamo vedendo, si manifestano nella classica, terribile forma dell’intervento militare che, in questo caso, può sfociare solo in una guerra civile.

 

Milioni di egiziani sono scesi in piazza in modo sano, spinti da un’indignazione giusta e coraggiosa, dando seguito ad un movimento popolare che rappresenta l’unica garanzia, nel mondo arabo come in qualunque altro posto, di una vera democrazia. Ma questo movimento popolare si inquadra –lasciatemelo dire in maniera provocatoria e brutale- in una strategia di assedio e di distruzione diretta contro i Fratelli Musulmani, orchestrata e preparata in termini molto simili a quella che rovesciò Allende in Cile o che tentò di rovesciare Chavez in Venezuela.

Fatemi essere ancora più provocatorio: un certo settore della sinistra –araba e mondiale- quando ci sono delle rivoluzioni le chiama cospirazioni e quando ci sono delle cospirazioni è convinta che, ora sì, è arrivata la vera rivoluzione. I colpi di Stato contro l’islamismo sono rivoluzionari! Anche se stiamo parlando dell’esercito egiziano, il più pro-statunitense del mondo, lo stesso che fino a pochi mesi fa sparava sul popolo e torturava i rivoluzionari!

In Egitto la sinistra fa parte del Fronte Nazionale di Salvezza, coalizione che comprende anche la destra neoliberale ed i reduci della dittatura; il suo più alto rappresentante, Hamdin Sabahi, che ha ottenuto il terzo posto nelle elezioni presidenziali, ha chiesto più volte, in questi ultimi giorni, l’intervento dell’esercito, ed ha plaudito i suoi “rivoluzionari” comunicati. Analogo il caso di Tamarrud, il movimento promotore delle mobilitazioni del 30 giugno, i cui portavoce confessano apertamente di aver coordinato le proteste insieme ai vertici militari e di aver risposto alla dichiarazione “stile Assad” delle Forze Armate (“daremo la nostra vita combattendo contro terroristi, estremisti ed ignoranti”) esigendo l’immediata detenzione del presidente eletto Mohamed Morsi.

Se il presidente eletto non se ne va, conosciamo già la “road map” annunciata dall’esercito: formerà una giunta mista di civili e militare per preparare la transizione, scioglierà il Parlamento, sospenderà la Costituzione e tratterà con pugno di ferro tutti i “terroristi, estremisti ed ignoranti” che vogliano opporsi al suo progetto di salvezza nazionale.

Non vi suona bene? A me molto. Abbiamo un’esperienza storica sufficiente per capire cosa questo significhi. Non sembra che ci siano molte alternative. Il rancore storico accumulato per decenni dalle forze islamiste sembrava essersi dissolto nella loro vittoria elettorale ed in quella pragmatica e teatrale rivendicazione, espressa con entusiasmo da neofiti, della “democrazia parlamentare”. Se adesso, con un colpo di mano, viene loro sottratto ciò che hanno conquistato con le urne, quel rancore, ora intensificato e legittimato, non tornerà a coagularsi in un’organizzazione dall’ideologia e dalle tradizioni molto poco democratiche, abituata alla clandestinità e più volte tentata dalla lotta armata? Può accadere che la “tomba delle rivoluzioni arabe” non sia la Siria, bensì l’Egitto.

Nel suo articolo di fondo del 3 luglio Abdelbari Atwan, editorialista di “Al Qods”, evocava lo “scenario algerino”. Certo, stiamo parlando di questo, ma in un paese di 80 milioni di abitanti, accanto ad Israele, in un contesto esplosivo di crescenti conflitti settari in Siria ed in Iraq. Bachir Assad può andare orgoglioso di aver anticipato il nuovo modello –il più vecchio- contro le minacce del “terrorismo islamico”. Fine della storia. Torniamo alla “eccezione araba”. Mubarak, Ben Ali, Gheddafi, Assad (ed i nostri governi e i nostri media occidentali) avevano ragione: il mondo arabo non è democratizzabile.

E la nostra sinistra, intanto, esulta per la vittoria dell’esercito.

 Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile

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