Egitto: il suicidio della rivoluzione

 

Santiago Alba Rico

Le peggiori previsioni si sono avverate: un colpo di stato militare ha rovesciato il primo presidente civile, eletto democraticamente, della storia dell’Egitto. Bisogna infatti ricordare che stiamo parlando di una sommossa militare, ai margini della costituzione, compiuta inoltre da un esercito che ha avuto sempre un ruolo centrale – IL ruolo centrale - nella gestione dello Stato. L’esercito egiziano è il maggior destinatario di aiuti da parte degli USA, subito dopo Israele, ed amministra direttamente, con procedure semi-mafiose, la metà dell’economia del Paese. Non dimentichiamo che Nasser era un militare e il suo successore, Sadat, l’artefice della cosiddetta politica dell’ “infitah” (apertura, o meglio sottomissione, all’Occidente) e che Mubarak, inamovibile tanto nell’appoggiare Israele e gli USA quanto nella gestione mafioso-militare dell’economia egiziana, era anch’egli un militare.

La rivoluzione del 25 gennaio che ha rovesciato Hosni Mubarak lo ha di fatto destituito anche dalla sua carica di capo dell’esercito ed è stata in realtà una rivoluzione incompleta contro l’interminabile dittatura delle Forze Armate. Lo sa molto bene l’opposizione –almeno quella di sinistra- che nell’agosto del 2012 accusò il Presidente Morsi di non aver depurato a sufficienza l’esercito e che qualificò di operazione puramente “cosmetica” la destituzione del generale Tantawui e la sua sostituzione con Abdelfatah Al-Sisi. Oggi, paradossalmente, quella stessa sinistra golpista si rallegra del fatto che Morsi non abbia depurato le Forze Armate e che abbia nominato Comandante in Capo Al-Sisi, giustiziere incaricato dell’esecuzione del golpe.

Nessuno può negare gli errori, gli insuccessi ed i soprusi commessi dal governo di Giustizia e Libertà (il partito dei Fratelli Musulmani), ma solo la demagogia più interessata o più cieca può parlare di “dittatura”, e per di più di “dittatura islamica”. Mantenere la mobilitazione nelle piazze, ricordare qual è la vera fonte di sovranità e legittimità (il popolo mobilitato), esprimere il malessere economico e sociale di un Paese sempre più impoverito, sono tutti segni di salute popolare, sono spinte sulla strada delle conquiste democratiche, avvertimenti contro qualunque tentazione di regressione. Ma in Egitto la dittatura occulta, anche mentre da piazza Tahrir si guardava verso il palazzo del governo, era la stessa di sempre: quella dell’esercito, desideroso di ricordare a tutti la propria centralità ed in attesa del momento giusto. Ed è paradossale che la piazza abbia accettato, preteso o festeggiato l’intervento militare per ristabilire “rivoluzionariamente” –e non per la prima volta- lo stesso potere di sempre. Il legittimo, giustificatissimo movimento popolare di piazza Tahrir è stato sfruttato da un’opposizione organizzata, quella del Fronte Nazionale di Salvezza e di Tamarrud, all’interno dei quali si mescolano e si confondono destra e sinistra e che aveva coordinato insieme alle Forze Armate, in modo più o meno ingenuo, tutte le proteste.

Basti guardare, ad esempio, i numeri della partecipazione forniti dall’esercito (33 milioni di persone!) con una precisione esagerata, volti a suscitare quell’impressione di unanimità richiesta dalla scenografia. La mobilitazione è stata senza dubbio immensa, soprattutto a piazza Tahrir, ma era necessario far passare, come prova di legittimità, l’immagine di una protesta ancora più imponente di quella che aveva fatto cadere Mubarak (come egli stesso si è premurato di ricordare dal carcere, rafforzando così l’idea che il vero nemico dell’Egitto non era il suo regime, ma l’islamismo, da lui sempre combattuto).

Perché il vero problema è questo. Il problema è che l’opposizione di destra e di sinistra, come ricorda l’arabista Luz Garcia Gomez, non ha mai riconosciuto i Fratelli Musulmani e pertanto non è mai stata disposta ad integrarli in un regime democratico che, senza di loro, democratico non sarà mai. Per questo da un anno l’opposizione ha scatenato una feroce campagna di criminalizzazione attraverso i media privati –e perfino pubblici- respingendo al tempo stesso ogni possibilità di dialogo con Morsi ed il suo governo. Tra bugie e mezze verità, sono andati costruendo l’immagine molto familiare, propria della propaganda islamofobica che tante volte abbiamo denunciato da sinistra, di un mostro tirannico, peggiore di Mubarak, che avrebbe concentrato nelle sue mani tutto il potere, represso le donne, minacciato i copti e per combattere il quale –appena un anno dopo!- tutto è consentito, compreso il ritorno del principale nemico di qualsiasi rivoluzione in Egitto: l’esercito. Dobbiamo ricordare –soprattutto a quelli che invocano a gran voce la legittimità democratica quando si tratta di Chavez e del Venezuela- che il partito di Morsi è uscito vittorioso da otto consultazioni popolari, mentre l’esercito, da parte sua, è uscito vittorioso solo dai suoi scontri con il popolo disarmato, perché, come Assad, non è stato capace nemmeno di sconfiggere Israele, la cui sicurezza garantisce da decenni. Quelli che giustificano il golpe affermando che è stato il popolo a forzare i militari a schierarsi dalla sua parte, non devono dimenticare che nel gennaio del 2011 i militari si sono ritirati solo dopo mille morti e che, negli scontri precedenti il pronunciamento di ieri, ci sono state appena quaranta vittime, la maggior parte tra le file islamiste. Per poter valutare l’atteggiamento dell’opposizione e la campagna preparatoria –o almeno propiziatoria- del colpo di stato, è molto utile leggere gli articoli di Javier Barreda, Alain Gresh o Essam Al-Amin, tre autori che non possono essere sospettati di islamofilia.

Ciò che si è prodotto in Egitto, alla fine, è un colpo di stato anti-islamista, come accadde in Algeria, e più precisamente contro i Fratelli Musulmani, come dimostra la soddisfazione condivisa di Bachir Assad e dell’Arabia Saudita, nemici tra di loro, e la generale accettazione della rivolta da parte di tutte le potenze europee (gli USA si sono limitati a esprimere preoccupazione senza condannare il colpo di stato, né definirlo tale). Non stiamo assistendo ad un progresso nel cammino delle rivoluzioni arabe, ma alla prima palata di terra sulla loro bara. L’immagine sinistramente familiare di Al-Sisi che annuncia in TV la destituzione di Morsi e garantisce un pronto ritorno alla democrazia, mentre in piazza Tahrir la gente applaudiva (e qualche buon amico della sinistra raggiungeva l’orgasmo), è stata seguita dalla detenzione del presidente eletto e di altri esponenti di partito (alcuni condividono la prigione con Mubarak), dalla chiusura di canali TV islamisti e l’arresto dei loro giornalisti, dall’assalto agli uffici di Al-Jazeera al Cairo e dall’interruzione del segnale satellitare del canale, nonché dai primi morti. Non sappiamo cosa succederà nei prossimi giorni. Tutto dipenderà da quali misure verranno prese contro il partito di maggioranza e da come reagirà la sua direzione; ma sono novant’anni che i Fratelli Musulmani stanno cercando di andare al governo, ed esserci riusciti in modo democratico, ed averlo perso con un golpe militare li trasforma in “martiri della democrazia” (già si autodefiniscono tali) e legittima senz’altro la loro resistenza. Non si può escludere uno scontro violento che può degenerare in una guerra civile. Singolare, pertanto, la pretesa dei militari di essere intervenuti per “proteggere la democrazia” e “evitare divisioni nel Paese” (ci ricorda qualcosa?). Estromettere il partito più votato non può essere fatto se non al prezzo di approfondire tutte le divisioni e limitare tutte le libertà.

Qualunque cosa avverrà, ormai è già avvenuto qualcosa di terribile. Il mondo arabo torna alle sue tradizioni di sommosse, di salvatori della patria e di libertà vigilata militarmente, contro cui i suoi popoli si sono ribellati due anni e mezzo fa. L’immagine del soldatone carico di mostrine che sospende la Costituzione è simbolicamente un’inversione della Storia, il contrappunto esatto, in termini di progresso e di rottura, di quella del misero venditore di verdura, senza potere né carisma, che ha suonato la sveglia ed infiammato la regione con la sua giusta rivendicazione di libertà.

Ottenere un po’ di democrazia in questa parte del mondo è un salto rivoluzionario; fare un salto ancora più rivoluzionario nelle braccia dell’esercito di Mubarak significa rinunciare alla democrazia e, quindi, alla rivoluzione. Contro l’islamismo non tutto è permesso ed è triste che una parte della sinistra si faccia prendere da questi facili orgasmi che ci riempiranno poi di pentimento e delusione. La “primavera araba” è più in pericolo che mai ed il dovere democratico della sinistra –e la strategia politica più acuta- è quella di sostenere il diritto degli islamisti a governare, se così decide la maggioranza, insieme al nostro diritto di combatterli e vincerli, e poi fare la rivoluzione, senza ricorrere all’esercito.

Termino con una brutta notizia che alimenta i miei peggiori presentimenti. Poiché gli arretramenti sono contagiosi tanto quanto gli avanzamenti, se la rivoluzione tunisina ha stimolato quella egiziana, ora, di ritorno, la “rivoluzione” egiziana sta contaminando quella tunisina. Ieri in Tunisia è stata creata una copia del movimento Tamarrud -di destra e di sinistra, perché non c’è destra né sinistra quando si tenta di sopprimere la democrazia – che sta raccogliendo firme e si prefigge di mobilitare grandi masse con il proposito di… sciogliere l’Assemblea Costituente! In Tunisia i rapporti di forza non le sono favorevoli, per fortuna, e l’esercito ha una storia diversa. A meno che, chiaramente, non si ricorra all’aiuto di Ben Alì e della sua polizia…

 Traduzione dallo spagnolo di Giovanna Barile

versione originale dell’articolo:http://www.cuartopoder.es/tribuna/egipto-el-suicidio-de-la-revolucion/4793