La rivolta dei dittatoriati – Intervista a Ouejdane Mejri

 

 

La memoria della rivoluzione dovrà nascere da una scrittura corale da parte degli oppositori al regime e delle vittime, ma anche da parte di chi, in silenzio, spiava da una finestra appena schiusa la violenza della dittatura.

 

Il 31 gennaio 2014 al centro culturale italiano “Dante Alighieri” a Tunisi Ouejdane Mejri e Afef Hagi hanno presentato il loro libro “La rivolta dei dittatoriati”. (Intervista di Patrizia Mancini)


Abbiamo incontrato Ouejdane per parlare con lei del libro e della situazione odierna della Tunisia.
Tunisia in Red: Da che cosa nasce l’esigenza di scrivere questo libro?

Ouejdane Mejri:Con Afef Hagi eravamo in Italia quando è nata la rivolta che quindi abbiamo seguito a distanza, in ansia per le nostre famiglie che invece erano sul posto. Quando Ben Alì è fuggito, ma soprattutto nelle settimane successive alla sua fuga, abbiamo spesso discusso su quanto era avvenuto in Tunisia, interrogandoci in primo luogo sul perché era nata questa rivolta. Quando noi vivevamo in Tunisia il nostro paese non si era mai mosso, il nostro popolo non aveva mai parlato e allora ci siamo chieste perché noi non avessimo mai reagito, non avessimo mai parlato durante i vent’anni in cui avevamo vissuto sotto la dittatura, tra Bourghiba e Ben Alì. Quindi il nostro sforzo si è concentrato sulla comprensione dei motivi di quella rivolta per arrivare in maniera molto naturale all’esigenza di descrivere com’era la vita, la nostra vita, sotto la dittatura. Era un’esigenza molto forte, spontanea, come se il libro ci chiedesse di essere scritto, libro che infatti nessuno ci aveva commissionato.

Una volta terminata la stesura, ci siamo rese conto, discutendone con Massimo Toschi (consigliere alla cooperazione internazionale e per i diritti delle persone disabili della Regione Toscana) che si trattava di un inizio,di un piccolo passo nella scrittura della nostra storia e della memoria dei dittatoriati. Lui ci ha fatto capire come la nostra narrazione appartenesse a un percorso che dovrà continuare perché ormai non possiamo attendere ancora di conoscere la verità. Stiamo aspettando che le vittime del regime parlino, nessuno infatti, neppure gli islamisti, finora ha raccontato la propria storia di repressione e tortura, solo Hamma Hammami (Partito dei Lavoratori) lo ha fatto in modo franco e aperto.

T.i.R: nel titolo del libro appare un neologismo: i “dittatoriati” puoi approfondircene il significato?

O.M. Nel tentativo di analizzare i soggetti della rivoluzione, gli attori principali del rovesciamento del regime in una realtà che si presentava complessa, abbiamo scelto di capire chi fosse questo famoso “popolo” di cui si è parlato per tante settimane e mesi, anche nelle piazze egiziane (al sha’b yurid…). Perché si trattava di una rivolta non organizzata, non vi erano né leader né bandiere, una rivolta non strutturata. Choukri Hmed( nella sua conferenza del 4 febbraio scorso a Tunisi all’Istituto di Ricerca sul Magreb contemporaneo intitolata “Une révolution de frustrés ? Politisation du mécontentement et dynamique protestataire lors de la première situation révolutionnaire tunisienne”) ha parlato di una sorta di “eruzione vulcanica”, almeno nella sua fase iniziale. Ma chi era questa gente che è stata in silenzio per così tanto tempo e che un giorno ha detto basta”? Bisognava trovare un modo per descrivere questa fascia di popolazione che si è sentita frustrata e impaurita per tanto tempo e di cui anche noi facevamo parte. E’ stato così che, in maniera molto spontanea, ci è venuto in mente di chiamare questo popolo un insieme di “dittatoriati”perché secondo noi il popolo come unità, come società non esisteva sotto Ben Alì dato che non eravamo cittadini, ma individui separati gli uni dagli altri. La ricomposizione, l’unità avverrà con e nella rivolta. Tuttavia il termine di “individui” non ci bastava, eravamo individui che avevano vissuto sotto una dittatura, per questa ragione l’utilizzo del termine “dittatoriati”, del tutto inventato anche se all’inizio non sapevamo che non esistesse in italiano, ha rappresentato uno spostamento del focus dalla dittatura, cui in alcun modo avremmo voluto rendere, per così dire, omaggio, verso coloro che ne avevano subito il peso e capire anche come noi stesse eravamo sopravvissute a questa dittatura. Noi che in realtà non eravamo né oppositori, né complici del regime.
Ecco che la la lingua italiana ci ha permesso di “giocare” con una nuova parola per esprimere il concetto.

T.i.R. Verso la fine del primo capitolo illustrate molto bene la “schizofrenia” in cui era immerso lo spazio pubblico tunisino.” Sicuramente la gran parte di noi non era disobbediente, tuttavia non era neppure così obbediente come sperava e voleva farci credere il regime. Anche noi avevamo il nostro simulacro, una finzione, un’immagine illusoria da rimandare alla propaganda del potere”
Ci puoi fare degli esempi di queste tecniche di sopravvivenza?

O.M. Nello spazio della propaganda la voce dei “dittatoriati” era assente perché non ci si poteva esprimere attraverso i media classici come la radio e la televisione. Tuttavia nascevano discussioni nei caffè a Tunisi come in altre città, oppure si accendevano dibattiti in Internet in cui l’ironia, il sarcasmo, le barzellette e vari codici criptati ci permettevano di sfogarci, dunque non eravamo in silenzio, ma le nostre parole non erano così chiare e dirette, altrimenti avremmo rischiato ben presto di trovarci nelle mani della polizia. Persino nelle amministrazioni pubbliche, durante le riunioni, si facevano battute indicando il ritratto di Ben Alì,“quello lì” che aveva depredato l’intero paese a beneficio della cerchia dei suoi famigliari e accoliti vari, è una cosa che mi hanno riferito hanno diverse persone, giovani e meno giovani. Ricordo che a un certo punto si era creato su Facebook un gruppo per l’abbattimento delle statue di plastica riproducenti un “labib”(così si chiama in tunisino il fenec, la piccola volpe del deserto) che Ben Alì aveva posto in ogni angolo del paese come simbolo di un ambiente sano e pulito, mentre spesso sotto questi pupazzi veniva gettata l’immondizia. Dunque si attaccava la dittatura nominandola attraverso i suoi simulacri e simboli, come è avvenuto a un certo momento con il colore “mauve” con il quale si dipingevano reticolati, passaggi pedonali e ponti, un colore che veramente ci ha “abitato” ed ossessionato in tutte le città. Certamente piccole resistenze che in ogni caso mostravano come non tutti fossero d’accordo con il regime. Quando poi negli ultimi anni ci è resi conto delle immani ruberie dei Trabelsi (la famiglia della moglie di Ben Alì), le battute si sono trasformate in maledizioni lanciate contro di loro, maledizioni che venivano proferite in quello spazio strano che non era né completamente privato né completamente pubblico, quello appunto dei dittatoriati. Un meccanismo che nella concatenazione di frasi iniziate da qualcuno e terminate da un altro ha permesso di scoprirsi non totalmente sottomessi.

T.i.R: ne hai parlato durante la presentazione del tuo libro a Tunisi, dell’influenza di tua madre nella tua formazione di potenziale ribelle.

O.M. Mia madre è stata lei stessa una ribelle sotto Bourghiba che in seguito, all’epoca di Ben Alì, ha adottato metodi diversi di resistenza, ma nel silenzio. E’ la persona che ha insegnato a me e a mia sorella la libertà, dicendoci semplicemente che eravamo libere. Ci ha fatto capire che nella vita le scelte erano nostre e che la libertà stessa era una responsabilità. Tanto è vero che al termine dei nostri studi universitari ci ha lasciato libere di scegliere quello che volevamo fare e addirittura ci ha spinto a lasciare il paese, convinta che qui non saremmo riuscite a vivere, ci ha allontanato da lei pur essendo ben cosciente del prezzo che significava stare lontana dalle figlie, ha voluto che vivessimo in un luogo libero. Ma noi non siamo mai state veramente libere neanche all’estero, se lasci la tua famiglia in Tunisia, se non ti esprimi e non sei un oppositore, non sei libero, sei incatenato qui come saresti incatenato in patria. L’insegnamento principale di mia madre rimane comunque un sentimento inattaccabile di libertà interiore e di senso di responsabilità che ci ha trasmesso con un affetto non soffocante, ma liberatorio.

T.i.R. Quando ti sei resa conto di essere una dittatoriata?

O.M, Al termine del liceo, quando mi sono resa conto che avevo da dire cose che non avrei mai potuto esprimere liberamente. Sono stata fortunata da un certo punto di vista perché non ho mai avuto problemi per l’inserimento scolastico o lavorativo per il tipo di famiglia da cui provenivo. E a Tunisi città, specialmente per quanto riguarda le ragazze, non si andava in giro o a giocare sotto casa, quindi si leggeva molto. Ed è stato leggendo che ho realizzato che le cose che leggevo in certi libri, io non avrei mai potuto scriverle. Una volta arrivata in Italia, la consapevolezza di essere una dittatoriata si è ulteriormente acuita, perché capivo che uscire dalla Tunisia non poteva farmi sfuggire a quella condizione e poi come immigrata non potevo votare, né farmi eleggere. Vivevo al di fuori della dimensione politica, come gli altri immigrati. In quel momento ho capito che ero confinata in un mondo dal quale non sarei mai uscita se non con la rivolta.

T.i.R. La scelta della lingua italiana per questa narrazione. Afef Hagi, coautrice di questo libro, ne ha parlato come uno strumento per mantenere una distanza dal fattore emotivo. Puoi chiarirci questo concetto? Ci sono altri motivi per questa scelta?

O.M. Quando abbiamo iniziato a scrivere avevamo utilizzato il francese che consideriamo la nostra lingua madre, dato che l’arabo non lo usiamo da tanto tempo e poi ci sarebbe stato da decidere se usare il dialetto tunisino che di solito non può essere usato per la scrittura, ma che forse sarebbe stato molto interessante come tentativo…Mentre scrivevamo in francese, io personalmente mi sono resa conto che cominciavo a divagare, a descrivere le passioni piuttosto che le idee. Io e Afef abbiamo voluto invece allontanarci dalla storia dei fatti e pensare noi stesse come dittatoriate, abbiamo cercato di non descrivere una storia di eventi e di vite, ma di allontanarci, di prendere una certa distanza che ci facesse avere uno sguardo più razionale, da psico-sociologi, da persone che si guardano da lontano. La ragione di questa scelta è dovuta al fatto che avevamo letto tantissime cose sulla Tunisia scritte da altri che parlavano di noi, ma in cui non ci riconoscevamo. C’era gente che ci diceva chi noi eravamo, in modo errato ed incompleto. Chi ha scritto dall’estero sulla Tunisia si è basato su dei dati che provenivano dai dittatoriati e un dittatoriato, per definizione, non ti racconterà mai la verità, se non è un oppositore e quindi abbiamo pensato che l’italiano, in quanto non era la nostra lingua madre, fosse uno strumento utile per permetterci di mantenere questa distanza dalle emozioni perché ci obbligava a mantenere una grande attenzione nella scelta e nell’utilizzo delle parole. Anche se credo di non esserci riuscita in pieno, Afef Hagi è stata più brava di me in questo senso.

T.i.R. Il capitolo 3 è dedicato al racconto della rivoluzione, in particolare alla descrizione dell’avatar rivoluzionario e del ruolo dei bloggers.
Puoi dirci se e come questa nuova categoria “sociologica” definitasi in quei giorni incida ancora nel dibattito in corso?

O.M. credo che ci sia stata una trasformazione fra prima e dopo la rivoluzione, ma persino durante. Prima c’erano solo i bloggers specializzati come Azyz Amami, Lina Ben Mhenni, Sofiane Chourabi ed altri che non sono nominati,che non conosciamo, ma che nelle regioni di Kasserine e di Sidi Bou Zid sono stati molto attivi a livello informatico, riuscendo ad agganciarsi alle reti che sono state rese disponibile all’estero. È stato un grande lavoro di collaborazione ed è in quel momento che si è trasformata la realtà cibernetica.
Ma già durante la rivolta alcuni di loro non erano più sul campo perchè arrestati e imprigionati dal regime per diversi giorni, eppure avevano lasciato dietro di loro questo spazio che è stato invaso da tutti. L’avatar rivoluzionario è stato un po’ l’elemento che ha unificato i tunisini contro Ben Alì e intorno al quale noi ci siamo aggregati, nato anch’esso in modo spontaneo così come è stato per la piazza. Oggi la Tunisia vive al ritmo di Facebook, i media stessi lo citano continuamente, ministri parlano di quanto avviene in rete.
L’informazione vive un “alle-retour”, un continuo andare e tornare dalla piazza virtuale e quella pubblica.
Io stessa quando voglio sapere cosa succede in Tunisia vado direttamente su Facebook dove si concentrano le notizie e dove si decidono le tematiche del giorno, a volte in modo ordinato, a volte spontaneo, a volte manipolato.
Su questo ritmo si sono continuate le lotte, sono uscite le informazioni sia dall’Assemblea Costituente che dalle sue commissioni di lavoro verso l’esterno, la rete è stato uno strumento per comunicare con la popolazione e la sua potenza è dimostrata dal fatto che i telegiornali e la radio di continuano menzionano affermazioni “in bacheca”, dichiarazioni ufficiali nelle pagine Facebook del Ministero degli Interni e così via. Dappertutto, dal parrucchiere o dal panettiere si parla delle notizie del giorno provenienti da Facebook. E’ diventato anche uno strumento massivo di attacco e di grandi dispute. Se un giorno non ci si riesce a connettersi, si perde il filo e ci si sente perduti. Diciamo pure che oramai siamo arrivati all’ uso compulsivo di questo spazio. Ma è doveroso anche spiegare come durante la rivoluzione FaceBook abbia sostituito i media tradizionali utilizzati da Ben Alì per la sua propaganda e come in qualche modo questa funzione sia rimasta. Infatti, anche se sono nate nuove televisioni e radio libere, si passa sempre da Facebook per l’informazione e anche per la disinformazione, l’intox che fa parte anch’essa del processo di transizione democratica. Del resto anche i media tradizionali spesso manipolano le notizie: io ritengo infatti che in questa fase, paradossalmente, sarebbe più interessante analizzare i meccanismi dell’intox, piuttosto che l’informazione.

T.i.R Sinceramente, tu ti aspettavi lo scoppio della rivoluzione?

O.M: Assolutamente no e francamente vivevo nel disagio di non potermi sentire fiera di essere tunisina a causa del mio silenzio e della mia impotenza.
Tuttavia Afef Hagi aveva percepito una certa tensione e di ritorno dalla Tunisia nel novembre 2010, mi aveva confidato “Se tu accendi un fiammifero adesso in Tunisia, si accende tutto il paese!”. Un mese prima io stessa avevo capito che il malessere della popolazione aveva raggiunto un livello di guardia, ma questo malessere trovava sfogo nell’aggressività degli uni contro gli altri e in una quotidianità di frustrazione e nervosismo. Mai, ripeto, mai avrei immaginato di sentire quegli slogan che ho sentito poi nel gennaio 2011, in particolare quelli scanditi dalle universitarie di Sousse, alla riapertura dell’ateneo : “Abbasso il flagellatore del nostro popolo, abbasso l’RCD !”. E davanti al computer, a migliaia di chilometri da Tunisi, assistevamo a quanto succedeva nel nostro paese con una crescente paura, ma con immensa emozione.
T.i.R A tuo parere, che cosa ha differenziato la transizione tunisina da quella di altri paesi come la Libia e l’Egitto?

O.M. Occorre tener presente diversi parametri: se pensiamo alla Libia, bisogna tener presente che è un paese che ha grandi risorse naturali e per questo motivo ha attratto subito gli interessi occidentali, un paese in cui fin dall’inizio della rivoluzione Gheddafi ha bombardato la popolazione. In Egitto la rivolta è stata più simile a quella tunisina, sia per le sue modalità che per il tipo di richieste. E’ un paese che, a differenza della Libia che partiva da zero, aveva le sue istituzioni, ma che ha fatto un grande errore, a mio parere e cioè quello di rimpiazzare immediatamente un dittatore con un presidente. In Tunisia si è scelto di eleggere 219 deputati in un’Assemblea Costituente che a sua volta avrebbero eletto un governo e un presidente. Noi non abbiamo eletto una persona per rimpiazzarne un’altra. Io sostengo che quello dell’Egitto sia stato un errore perché la parte più difficile nelle situazioni di transizione post-rivoluzionarie è il rapporto con il potere. Dopo l’abbattimento di una dittatura, la fiducia nel potere non è una cosa che nasce immediatamente. I dittatoriati non hanno mai avuto esperienza di governi che non li derubino, che non li facciano patire l’oppressione, che non li controllino. L’elezione dei deputati in Tunisia, a differenza dell’Egitto, in qualche maniera ha attutito la potenziale mancanza di fiducia, tramite il controllo da loro esercitato sul governo, laddove in Egitto ogni singolo errore di Morsi ha rappresentato per molti egiziani un ritorno al passato e alle pratiche precedenti. A mio avviso, più che la Shari’a, il fatto che da Morsi emanassero direttamente la Costituzione e le nomine della Corte Costituzionale ha spaventato gli egiziani che sono scesi in piazza accusandolo di volere il ritorno alla dittatura. I Fratelli Musulmani in Egitto sono caduti sul problema della giustizia, centrale in un nuovo governo che si dica democratico. Anche in Tunisia, dopo l’assassinio di Mohamed Brahmi nel luglio 2013, l’opposizione con il sit in del Bardo ha chiesto la dissoluzione del governo e dell’Assemblea Costituente, ma in questo caso sarebbe stato più difficile da attuare in quanto si trattava di tre istanze, Assemblea, Governo e Presidenza. Attraverso poi il Dialogo Nazionale si è riusciti a far rientrare il pericolo, ricordiamo che si chiedeva la dissoluzione della prima istanza eletta democraticamente in Tunisia!
Inoltre la Tunisia è un paese più piccolo, più acculturato il che ha evitato lo scontro frontale tra ideologie forti, relegando l’estremismo a un fatto tutto sommato marginale e minoritario. Quello che è successo ai Fratelli Musulmani in Egitto ha fatto molta paura ai loro confratelli tunisini e il discorso pubblico di Ennahda si è totalmente trasformato a seguito degli eventi egiziani. E’ un fatto normale dato che parliamo di un movimento transnazionale: crollando il movimento più forte, Ennahda ha dovuto rivedere le proprie posizioni trovandosi nella nuova condizione di dover sostenere i confratelli egiziani mentre in precedenza avveniva il contrario. Ciò ha dimostrato secondo me quanto utopica sia l’idea di trasferire quel modello in Tunisia.
T.i.R.: Sarebbe troppo lungo parlare della nuova costituzione tunisina appena votata. Comunque, a grandi linee, come la giudichi?

O.M: Non mi azzarderei a giudicarne il testo in sé perché dipende da come si tradurrà nella legislazione effettiva, infatti non dobbiamo dimenticare che tutte le leggi esistenti dovranno essere modificate in modo che siano costituzionali e questa è un’altra lotta da portare avanti. Ora posso solo dire che il percorso che è stato fatto per arrivare a questo testo è stato esemplare: è giunto alla meta fra grandi difficoltà e grande dolore per gli assassini di Chokri Belaid (di cui ricorre proprio in questi giorni l’anniversario) e di Mohamed Brahmi, fra le minacce e gli attacchi dei terroristi, le crisi di governo, con l’assenza delle istanze rivoluzionarie nel testo costitutivo. Ma nonostante tutto, posso dire che si è messa in moto una macchina, quella della democrazia e che abbiamo assistito alla nascita della società civile. Non scordiamoci infatti che da questo punto di vista partivamo da zero, da sindacati che dovevano fare un bel ripulisti al loro interno prima di poter parlare, da partiti dell’opposizione che si sono sgretolati per poi ricostituirsi, da nuove coalizioni… tutto ciò ha avviato un processo che, a mio avviso, durerà ancora molti anni. La neonata società civile tunisina, composta da persone che non avevano nessuna esperienza e spesso non sapevano come muoversi, è riuscita a portare avanti un incredibile numero di lotte anche attraverso la scrittura di petizioni. Quante ne abbiamo scritte e quante ne abbiamo firmate! E quante chiamate alla mobilitazione sono state fatte!. Sarebbe molto interessante contarle! Potrei citare decine di episodi in cui la mobilitazione ha portato i suoi frutti, come la volta in cui si tentò di introdurre la complementarietà della donna rispetto all’uomo nella Costituzione. La proposta di Ennahda ancora non era stata ufficializzata, ma è bastato un twitt uscito dall’Assemblea Costituzionale perché la piazza si mobilitasse.

T.i.R.: Il 4 febbraio un gruppo di terroristi è stato neutralizzato a Raoued. Il bilancio è stato pesante: un agente della Guardia nazionale e 6 terroristi sono morti nello scontro armato, fra questi il presunto assassino di Choukri Belaid. Qual’è la tua interpretazione dei fatti?

O.M. I fatti di Raoued avvengono a un anno dall’uccisione di Belaid e io sono convinta che non sia un caso, così come non è stato casuale l’assassinio del leader del Watad. Io penso che il cuore del problema, così come sotto la dittatura, rimanga il Ministero degli Interni. Il nodo centrale del regime è stata la polizia ed è stato il Ministero degli Interni. Ed è ancora da lì che nasce il potere sul paese. Ancora oggi all’interno di questo Stato a sé che rappresenta il Ministero degli Interni nessuno sa cosa avvenga.

 “La rivolta dei dittatoriati” di Ouejdane Majri e Afef Hagi – Prefazione di Gad Lerner – Ed. Mesogea