La Siria e la lotta "antiterrorista"

Santiago Alba Rico
Qualche giorno fa un canale della televisione tunisina, Ettunisia, ha trasmesso un’intervista a un jihadista tornato dalla Siria che è stato arrestato dalla polizia poche ore dopo. Abou Qussay – viso nascosto da un passamontagna e nome falso-  ha raccontato al giornalista Naoufel Ourfani  la propria esperienza nelle trincee siriane come volontario del Fronte Nusra, la milizia islamista che qualche mese fa si è smarcata da Al-Qaeda per combattere contro l’ISIS (Stato Islamico di Iraq e Siria). Bisogna prendere con molta cautela il racconto di Qussay, soprattutto per quanto riguarda il numero e il ruolo dei tunisini nel Fronte, nonché la presenza di donne straniere, metà combattenti e metà prostitute.  La cosa più importante, a mio avviso, è il fatto che i tunisini, come altri volontari jihadisti, stanno rientrando nel proprio paese di origine; questo, secondo Abou Qussay, sarebbe una conseguenza delle lotte interne e della perdita di terreno dell’islamismo radicale in Siria.
Il rientro di questi volontari che preoccupa molto sia il governo tunisino che i governi  dei paesi confinanti (Algeria e Libia), è gravido di rischi per tutti. Tuttavia il pericolo maggiore non è tanto l’aumento del terrorismo, che pure non è trascurabile, quanto l’attenzione crescente, ossessiva ed invadente prestata da questi Governi alla “lotta al terrorismo”, espressione diventata ormai un mantra, che ha permesso di giustificare decenni di dittature nel mondo arabo, di regressione dello stato di diritto nei paesi europei e di interventi militari a livello globale.  In Tunisia, ad esempio, tanto la partenza quanto il rientro di volontari dalla Siria è stata ed è una questione di politica interna:  in questa chiave  va interpretata l’intervista di Abou Qussay a Ettunisia. Nella vittoriosa operazione di assedio e rovesciamento del governo di Ennahda, il “terrorismo” ha giocato un ruolo fondamentale. Ali Laraiedh e i suoi ministri, nell’opinione   dell’opposizione belligerante, erano responsabili di tutti gli attentati e di tutte le violenze oltre che, naturalmente, dell’afflusso di jihadisti in Siria. Da quando, nel gennaio scorso, si è insediato il governo  “tecnico” di Mehdi Jomâa, si sono verificati altri attentati , alcuni molto gravi (come la recente imboscata a Jendouba durante un falso controllo di falsi poliziotti),  ma il “terrorismo” ha assunto una consistenza oggettiva, quasi naturale, che catalizza l’accordo di tutti i partiti. Tutti serrano le fila intorno al nuovo governo mentre Ennahda, un po’ spaventata dagli scossoni egiziani e dalla deriva regionale,  un po’ opportunista, resta in silenzio e si prepara alle elezioni. L’appoggio degli uni e il silenzio degli altri hanno permesso a Jomâa di firmare accordi con la UE sulle politiche migratorie, di negoziare con il FMI, d’accelerare il reinserimento dei lealisti del passato regime e visitare l’Arabia Saudita, senza che né partiti né mezzi di comunicazione – pure così bellicosi contro “l’islamismo” di Ennahda-  abbiano fatto sentire la loro voce.
Ma il rientro di Abou Qussay è un segnale di speranza per la Siria. A tre anni dalla rivoluzione e dopo due anni e mezzo di guerra, è bene ricordare che, sul piano militare, la riorganizzazione delle milizie ribelli, dovuta a pressioni interne ed esterne, è  riuscita ad espellere l’ISIS (il gruppo di Al Qaeda) da diverse zone nelle quali era diventato forte. Questa è una buona notizia per la rivoluzione e una cattiva notizia per il regime. Perché, come sanno tutti quelli che conoscono la realtà siriana, Al Qaeda si è limitata a sfruttare l’opportunità offertale dalla politica di distruzione totale praticata da Assad, ma non è mai stata, e non è,  un asso nella manica degli americani: è piuttosto un asso nella manica dello stesso regime. Mentre il negoziato di Ginevra affonda, colpito a morte anche dalla crisi ucraina, e l’esercito di Assad recupera il vantaggio militare, l’arretramento di questi fascismi gemelli (il  jihadismo, funzionale al fascismo della dittatura) ravviva in qualche modo l’impulso originario o, quanto meno, mette in luce il carattere avventizio e artificioso di una “jihadizzazione” che buona parte del popolo siriano giudica non meno controrivoluzionaria dello stesso Assad.
Giunti al mese di marzo di tre anni dopo (1),comunque, bisogna guardarsi dal rischio di coltivare due fantasie: quella per cui dopo le prime manifestazioni pacifiche non è successo nulla, e quella per cui in Siria non esiste altro che una “guerra settaria”. Per scongiurare questo rischio credo sia importante ascoltare la voce dei siriani ancora vivi e, tra loro, l’ammirevole Yassin Al-Haj Saleh, un intellettuale marxista che fu incarcerato da Hafez-Al-Assad perché membro della Segreteria Politica del dissidente Partito Comunista di Riad, Aturki, e rimase in prigione 16 anni. Nel marzo 2011, allo scoppio della rivoluzione, fu  costretto a nascondersi e passò più di due anni in clandestinità, a Damasco e Raqqa, partecipando all’organizzazione dei coordinamenti locali e cercando di far arrivare la voce della rivoluzione democratica fuori dal Paese. Le sue denunce  ed analisi sono indispensabili per comprendere la legittimità ed il percorso di quella che, ancora oggi, egli chiama senza esitazioni “rivoluzione”.
Cosa è successo in questi tre anni? Riassumo brevemente e liberamente il racconto di Al-Haj-Saleh, che condivido in pieno.
E’ successo che la dittatura ha ucciso, incarcerato, torturato e fatto sparire e/o espulso dal Paese decine di migliaia di dirigenti e militanti democratici, mentre liberava o lasciava tranquilli quei feroci  jihadisti che diceva di voler combattere, ma grazie alla cui esistenza cercava di legittimarsi all’estero.
E’ successo che la politica di distruzione sistematica, brutale, totale, messa in atto dal regime –con bombardamenti aerei sulla popolazione civile, carestie indotte, torture  e più che probabile uso di armi chimiche – ha spianato la strada al protagonismo militare dei jihadisti, a volte feroce quanto il regime stesso.
E’ successo che l’opposizione siriana “ufficiale”, controllata da quella in esilio e da Arabia Saudita e Qatar (che si combattono a vicenda) è stata incapace di rappresentare e unire il fronte rivoluzionario interno, contribuendo così al regresso della società civile ed alla crescita dell’ “internazionalismo jihadista”, purtroppo l’unico ad essersi affacciato nel paese.
E’ successo che mentre Arabia Saudita, Qatar e Turchia foraggiavano i gruppi jihadisti con armi, uomini e denaro, e Russia, Iran, Iraq e Hezbollah sostenevano la dittatura con armi, uomini e denaro, le forze democratiche, laiche e islamiche moderate non ricevevano alcun tipo di aiuto solidale, militare o politico che fosse, né dalle cosiddette democrazie occidentali né dalla cosiddetta sinistra mondiale. Mentre l’imperialismo americano minacciava un intervento (che ben pochi volevano) per imporre il disarmo chimico della dittatura –a beneficio di Israele- e il disarmo convenzionale dei ribelli, legittimando così la loro stessa dittatura, l’antimperialismo “ufficiale” sosteneva il governo di Assad e si rendeva complice dei suoi crimini.
E’ successo che molti intellettuali e partiti di sinistra, con notevole presunzione e poca sensibilità etica, hanno suggerito ai loro omologhi siriani, perseguitati da anni dalla dinastia Assad, di accettare il “male minore” della dittatura e sottostare al potere colonialista interno, quello stesso potere che li stava uccidendo (quando non venivano bombardati virtualmente da Madrid, Caracas e Ottawa, da dove li si tacciava di traditori, imperialisti e mercenari).
E’ successo che nel governo, nei partiti e nei media, destra e sinistra hanno finito per convergere, salvo eccezioni, sul mito della “lotta antiterrorista” ed abbandonare, ignorare, occultare la resistenza eroica e il dolore incommensurabile di milioni di siriani che chiedono pace, libertà e dignità. Sono questi i siriani che stanno lottando contro il terrorismo, sia quello del regime che quello di Al Qaeda, circondati dall’assordante silenzio –quando non dall’aperta complicità- di tutte le forze politiche e di tutte le potenze.
E’ successo infine che, dopo tre anni, due sono le certezze assolute: per prima cosa le possibilità di autodeterminazione della Siria, nel vespaio geopolitico antimperialista, sono diminuite tragicamente; e in secondo luogo, qualunque speranza di costruire un paese democratico, riconciliato e libero dal jihad passa –oggi come nel marzo del 2011- dal rovesciamento di Bachir Assad e del suo regime criminale e fascista.
Che queste righe siano un segno di solidarietà e un omaggio a Yassin Al-Hajj Saleh e a tutti quelli che, come lui, continuano a lottare per una Siria sovrana, libera, giusta, laica, democratica, solidale. E per tutti che quelli che non possono più lottare perché sono stati uccisi.
(1) Le prime proteste e manifestazioni contro il regime di Assad iniziarono nel marzo 2011.
Versione originale in spagnolo qui
Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile