La Tunisia è un’eccezione?

Il presidente beji Caid Essebsi con altri capi di Stato alla marcia contro il terrorismo del 29 marzo 2015 Crédit photo : Direct matin.fr

Il presidente Beji Caid Essebsi con altri capi di Stato alla marcia contro il terrorismo del 29 marzo 2015 Crédit photo : Direct matin.fr

Santiago Alba Rico

Sabato 29 marzo, mentre si chiudeva il World Social Forum che per la seconda volta si è tenuto a Tunisi, il Presidente della Repubblica, l’anziano Beji Caid Essebsi -ex Ministro dell’Interno di Bourguiba, ex Presidente del Parlamento di Ben Alì- è intervenuto presso la Lega Araba per “appoggiare l’iniziativa saudita a favore del dialogo nazionale in Yemen: vale a dire, i bombardamenti sulle posizioni controllate dagli Huti, forse premessa di un intervento militare terrestre.

Guerra civile in Yemen, in Siria, in Iraq, in Libia; dittature indisturbate nel Golfo, in Giordania, in Marocco, in Algeria; il contrasto tra il World Social Forum e la Lega Araba (così vecchia, così familiare): tutto sembrava voler illuminare la “differenza tunisina”.

Ma esiste davvero questa differenza?

Qualche ora dopo la chiusura del Forum e la riunione della Lega Araba, poche ore prima della “grande marcia antiterrorista” nella capitale tunisina, la Guardia Nazionale uccideva, durante uno scontro a Sidi Aich, nella provincia di Gafsa, nove presunti terroristi, sembrerebbe membri di Oqba Ibnn Nafia, il gruppo terrorista vicino ad Al Qaeda e responsabile dell’attacco del 18 marzo scorso al Museo del Bardo. Tra di loro, secondo il Ministero dell’Interno, si trovava Lokmane Abu Sakher, il vero e proprio organizzatore dell’attentato: la sua uccisione è servita a dare il benvenuto a François Hollande e agli altri Presidenti o Ministri stranieri presenti ad una manifestazione che, per un’ora, ha trasformato Tunisi in un quartiere di Parigi.

L’attentato al Museo e la manifestazione convocata dal Governo segnano infatti una continuità tra l’antica metropoli e l’ex protettorato, cercando di generare la pericolosa illusione che esista un’unica trincea contro quel terrorismo jihadista che prima ha colpito Charlie-Hebdo a Parigi (primi anche in questo, i francesi) e poi il Museo del Bardo a Tunisi.

La Lega Araba, il World Social Forum e la marcia contro il terrorismo, convergenti nel tempo, illuminano il contraddittorio snodo su cui convergono l’eccezione tunisina e le dinamiche controrivoluzionarie regionali. Non si può negare che l’attentato del 18 marzo –salto qualitativo di un’attività terroristica da tre anni endemica nel Paese- sia un tentativo di “allineare” la Tunisia al caos regionale; tentativo al quale partecipano gruppi jihadisti locali, minoritari ma ben nutriti dal caos libico, e del quale si rallegrano e traggono profitto, da parte loro, elementi dello Stato profondo del regime di Ben Ali, puntando entrambi nella stessa direzione: quella dell’interruzione del fragile processo democratico tunisino e del ritorno a quella “normalità” che la Lega Araba, con i suoi vecchi e nuovi dittatori, rappresenta.

Ma la Marcia contro il terrorismo, pallida copia di quella di Parigi, ha dimostrato anche l’interesse dell’Unione Europea a che la Tunisia eviti il destino dell’Egitto e della Libia. Le potenze occidentali vogliono preservare ad ogni costo l’eccezione tunisina e con essa, finché sia possibile garantire stabilità, anche le istituzioni democratiche. Ricordiamo le pressioni esercitate su Nidaa Tunes (il partito vincitore delle ultime elezioni) perché negoziasse con gli islamisti di Ennahda, che guida tre ministeri, e formasse qualcosa di molto simile a un governo “di unità nazionale”. Fin quando non si imporrà una situazione di fatto più favorevole ai loro interessi, l’UE -e gli USA- continueranno ad appoggiare questo accordo “contro natura” per gli standard della regione e secondo il giudizio degli elettori, anche a costo di sacrificare le libertà conquistate negli ultimi anni e disattendere le istanze sociali di una popolazione sempre più impoverita.

Alcune associazioni per i Diritti Umani hanno espresso il timore che l’ “allarme terrorismo” possa giustificare le limitazioni di alcuni diritti civili e l’aumento della tortura –che non è mai scomparsa- come pure la criminalizzazione di scioperi e proteste sociali; per non parlare della dilazione sine die della giustizia di transizione e dei lavori dell’Istanza per la Verità e la Dignità, incaricata di verificare, giudicare e indennizzare le vittime di crimini della dittatura.

In questa situazione –diciamo la verità- fa più paura Nidaa Tunes (“niente diritti umani a chi nega i diritti umani”) di Ennahda (“è necessaria una legge antiterrorismo che non sia una legge speciale; non possiamo sacrificare i diritti e le libertà sull’altare della sicurezza”, secondo la deputata Sayida Ounissi)

E la sinistra? Il Fronte Popolare, coalizione di partiti della sinistra radicale, con 15 deputati in Parlamento, si è rifiutato di partecipare alla marcia del 29 marzo, un’iniziativa –a suo giudizio- “ipocrita” in quanto vedeva la presenza di Ennahda, “responsabile politico e morale del fenomeno del terrorismo”. C’erano forse buoni motivi per non partecipare ad una manifestazione a fianco di Hollande, Renzi e Margallo, ma anche il pretesto del Fronte Popolare suona un po’ “ipocrita” se si ricorda che nel 2013 questi flirtò con il colpo di stato e “la via egiziana alla democrazia” e, per di più, a gennaio accettò di entrare nel governo conservatore di Nidaa Tunes, dal quale si ritirò soltanto quando, sotto la spinta delle pressioni occidentali, vi entrò anche Ennahda.

Come dice lo scrittore libanese Gilbert Achcar, la sinistra tunisina è stata salvata dall’UE e dagli USA nel senso che, rimanendo fuori dal governo, ora si vede costretta a fare quello che avrebbe dovuto fare sin dall’inizio e per convinzione: opporsi nella stessa misura sia alla destra “laica” che alla destra “islamista”.

Quanto al World Social Forum, è vero che non si sarebbe potuto svolgere in nessun altro posto del mondo arabo e che centinaia di giovani tunisini affamati e senza partito gli hanno svolazzato intorno alla ricerca del miele. Oggi, purtroppo, tornati al buio, si sentono orfani e vulnerabili di fronte a quelle stesse istituzioni che avevano aiutato a nascere, e che li escludono e li reprimono ancora una volta. Se davvero si vuole combattere il terrorismo e il jihadismo, bisogna cominciare a ricordare cosa questi giovani chiedevano nel gennaio del 2011.

l’articolo in spagnolo esce in questi giorni su Diagonal periodico (versione cartacea)

Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile