Stato d’emergenza: né diritto, né legge

inkyfadaA cura della Redazione di Inkyfada

Nuovamente instaurato lo stato d’emergenza, si moltiplicano gli attacchi ai diritti in nome della lotta al terrorismo.

Ancora una volta lo stato di emergenza e il coprifuoco hanno imposto a Tunisi un clima ansiogeno. Rinforzati i posti di blocco sulle vie, alcuni edifici pubblici di nuovo imprigionati dietro barriere, si moltiplicano i controlli nei luoghi pubblici.

La risposta delle forze di sicurezza all’attentato contro un pullman della guardia presidenziale che il 24 novembre scorso ha fatto 12 morti, è visibile. Le cifre parlano da sole. All’indomani dell’attentato sono state compiute più di 3000 perquisizioni. Secondo l’avvocato Ghazi Mrabet sarebbero circa 70 le persone che sono state denunciate per violazioni al coprifuoco.

Oltre a queste cifre, che vanno gonfiandosi,  abusi e attacchi ai diritti umani  vengono commessi in tutta impunità.

Giornalisti “terroristi”?

La violenza usata nei confronti dei giornalisti, il giorno dell’attentato del 24 novembre sull’avenue Mohamed V, ha dato il via. Il Centro di Tunisi per la libertà di stampa, così come Reporters sans frontières, hanno denunciato tali maltrattamenti.

Asma Baccouche, giornalista a Radio Culturelle, undici anni di esperienza, stava lavorando sul campo il 24 novembre. Recatasi rapidamente sul posto, racconta di aver cominciato a fare domande ai poliziotti per sapere se l’autobus fosse un autobus civile o se appartenesse alle forze di sicurezza.”Si sono rifiutati di rispondermi, mi sono detta che erano in stato di choc” Ma subito viene insultata”Io, mia madre e la stampa”, si sente di tutto.

Ho mostrato la mia tessera di giornalista e assieme agli altri colleghi, ci siamo attenuti alle loro istruzioni. Abbiamo dato loro il nostro appoggio e abbiamo detto che volevamo stabilire la verità dei fatti. “spiega

Alcuni poliziotti ci hanno detto che noi, in quanto media, eravamo la causa del terrorismo, che i giornalisti sono dei terroristi”

Le forze dell’ordine, incapaci di gestire la situazione, hanno dunque cominciato a usare la forza per evacuare il posto. “Io correvo, ho sentito un calcio arrivarmi sulla schiena, ho fatto un bel volo e sono ricaduta a terra in ginocchio” Dopo essere passata all’ospedale, ne uscirà con 10 giorni di prognosi.

E’ una situazione anormale che non possiamo tollerare” Asma Baccouche intende sporgere denuncia e anche se non ci sarà seguito, almeno si sarà lanciato un segnale.

Non abbiamo mai visto condannare un poliziotto, bisogna provare e riprovare. Si tratta di un attacco alle libertà, un poco alla volta vogliono rubarci la libertà di stampa, del resto la sera dell’attentato, alla televisione già si potevano sentire discorsi che dicevano che il terrorismo è legato alle troppe libertà...”

Di fronte a questi conflitti e incomprensioni con le forze dell’ordine, alcuni giornalisti si esprimono, altri continuano a temere rappresaglie. Imen Béjaoui, avvocato della SNJT (Il sindacato nazionale dei giornalisti n.d.t) che si occupa delle denunce penali contro i giornalisti” Sono rimasta stupita dal fatto che venisse nuovamente utilizzata la violenza, ma ho l’impressione che i giornalisti ne abbiano fatto le spese. Senza dubbio a causa dell’atmosfera, dei morti, del fatto che si trattasse di un attentato”

L’avvocato aggiunge che esiste una sensazione latente di restringimento delle libertà da un po’ di tempo”Già da un anno a questa parte non c’è stata stabilità per quanto riguarda la libertà di stampa. Eppure, dopo le elezioni pensavo che sarebbe cambiato. Ancora si perseguitano i giornalisti e ancora i politici non hanno compreso che la libertà d’espressione e di stampa sono le uniche conquiste della rivoluzione. Perciò ci si deve aggrappare a questo”. Anche se aggressioni e convocazioni dei giornalisti davanti al giudice sono diminuite, l’avvocatessa si aspetterebbe che scomparissero completamente.”Tanto più che con il decreto legge 115 non vi è più motivo perché i giornalisti vengano giudicati in base al codice penale per errori professionali, dato che vi sono sanzioni previste proprio dal questo nuovo decreto legge.”

Irruzioni violente

L’utilizzo del codice penale, nonostante esista  un regime speciale per i giornalisti, non è l’unico abuso e alcuni cittadini testimoniano apertamente sulle derive di questa situazione securitaria.

In un comunicato l’organizzazione Amnesty International denuncia, all’inizio di dicembre, un utilizzo abusivo delle misure di eccezione. Menziona quanto è successo in occasione dell’attentato all”avenue Mohamed V, ma anche l’irruzione violenta della Squadra di lotta contro il terrorismo che ha avuto luogo alla Goulette la notte del 27 novembre, nel corso della quale “decine di uomini – fra 50 e 70 in tutto, secondo i testimoni- sono stati fermati, inclusi dei residenti anziani e malati (…). Alcuni sono stati colpiti mentre venivano trasferiti al posto di polizia, dove li conducevano per far loro subire un interrogatorio.”

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La porta di una della case della Goulette dove ha fatto irruzione la polizia Da un video di Nawaat.org

Amna Guellali, della sezione tunisina di Human Rights Watch conferma aver ricevuto lo stesso tipo di testimonianza.

Abbiamo redatto un rapporto a seguito di queste irruzioni. Abbiamo raccolto le testimonianze di abitanti che erano in stato di choc, a causa della violenza delle forze dell’ordine che sono entrate nei loro domicili senza un ordine giudiziario o del procuratore”.

Anche se il testo relativo allo stato di emergenza permette degli “aggiustamenti”relativamente alle leggi ordinarie, tuttavia questi abusi sollevano problemi. Non è la prima volta che il paese viene posto sotto lo stato di emergenza. Il 4 luglio, qualche giorno dopo gli attentati di Sousse che hanno fatto 38 vittime, il presidente Beji Caïd Essebsi annuncia l’instaurazione dello stato di emergenza e il rafforzamento di alcune misure di sicurezza. Lo stato di emergenza, emesso per decreto nel 1978 a seguito di un sollevamento sindacale sotto Bourghiba, permette alla autorità di applicare la sospensione di manifestazioni, pubblicazioni e riunioni e l’avvio di perquisizioni, la requisizione di veicoli e arresti di tutte le persone sospettate di minacce all’ordine pubblico. Si aggiunga a ciò la legge anti-terrorista votata lo scorso luglio che autorizza il fermo di polizia prolungato di 15 giorni e la detenzione provvisoria in nome della lotta al terrorismo, lasciando in questo modo un margine ampio alle derive e ai maltrattamenti. Nizar Chouk, giudice di istruzione e presidente dell’Osservatorio sulla qualità della legislazione, per conto del sindacato dei magistrati, spiega come la legge rimanga vaga riguardo le perquisizioni e lasci un margine di manovra ampio per le forze dell’ordine. In questa legge, così come nel codice penale, la flagranza del delitto è definito in maniera più ampia, permettendo, ad esempio, ai poliziotti di agire in qualunque situazione sembri loro sospetta.

Nei social networks si possono trovare diverse testimonianze di cittadini malmenati dalle forze dell’ordine, come quella di Slim Ghedira che si è ritrovato a essere picchiato e portato al posto di polizia da 5 agenti in abiti borghesi, mentre era in attesa per entrare in un cinema durante le Journées Cinématographiques de Carthage. Certificato medico alla mano, afferma oggi di aver messo insieme un dossier per sporgere denuncia, ma il suo caso sembra raro.

Alla Goulette, per esempio, gli abitanti sono stati un po’ “dissuasi”dal denunciare quanto avvenuto, riporta Amna Guellali.

le persone sono impaurite e vi è una specie di intimidazione sociale. Come se fosse meglio non dire niente piuttosto che tradire la grande causa della lotta contro il terrorismo”

Ahmed Redissi, 40 anni, imprenditore franco-tunisino, fervente praticante, installatosi in Tunisia da giugno 2015, voleva far visita a suo padre all’ospedale militare. Racconta la discriminazione che ha subito quotidianamente dopo l’ultimo attentato.

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Ahmed Redissi. Foto di Malek Khadhraoui

Quanto tenta di accedere all’ospedale, il 1° dicembre, un soldato gli impedisce l’accesso con il pretesto che il regolamento dell’ospedale vieta l’ingresso a chi ha la barba. Dopo essersi informato, sembra che sia il fatto di portare il quamis che è vietato. Ahmed cambia d’abito, ma niente da fare. In effetti è proprio la sua barba che pone problemi.

Lunedì 7 dicembre alcuni poliziotti in borghese si recano presso di lui chiedendogli di andare al commissariato per una sua denuncia di furto di uno scooter. In pratica si ritroverà interrogato per un’ora sulle sue pratiche religiose e i poliziotti arriveranno persino a chiedergli l’accesso ai suoi account sui social networks.

Martedì 8 dicembre viene nuovamente interrogato, mentre di sta recando a incontrare uno dei nostri giornalisti. E ancora le stesse domande “assurde” “C’erano altri uomini con me. Anche loro avevano la barba. Ma anche una donna col niqab”

Capisco che abbiano degli ordini che vengono dall’alto, del resto diversi poliziotti erano imbarazzati e capivano l’assurdità delle domande che mi facevano. Il tono era corretto, persino cordiale, a volte. Ma sinceramente non penso che otterranno dei risultati con questi metodi. Peggio, questi maneggi possono condurre i più fragili a radicalizzarsi.

Nonostante ciò, Ahmed non intende sporgere denuncia per evitare noie alla sua famiglia. Suo padre è malato e non ha voglia di entrare in conflitto con le autorità”Sono nel mio paese, ho trasferito la mia attività in patria e sono vicino alla mia famiglia e questi inconvenienti non hanno cambiato niente, per il momento”

Il ritorno dell’autoritarismo e delle pratiche dell’ancien régime sono evidenti. Sotto Ben Alì, la caccia ai “barbuti” e alle “velate” un po’ troppo appariscenti erano pratica corrente, così come gli abusi polizieschi praticati nei confronti dei militanti di sinistra. Questo genere di pratiche ha lasciato traumi nell’animo dei cittadini, come conferma Amnesty International.

La lunga e penosa esperienza di violazioni commesse sotto il regime dell’ex presidente Zine el Abidine Ben Alì, getta un’ombra sui progressi raggiunti negli ultimi cinque anni e l’attuale governo deve fare scrupolosamente attenzione affinché non vi sia un ritorno alla tortura e alla repressione in nome della lotta al terrorismo

ha dichiarato Sais Boumedouha, direttore aggiunto del programma Moyen Orient e Afrique du Nord di Amnesty International, nel rapporto.

Altra “tecnica”utilizzata nei confronti della popolazione, la legge 52 che criminalizza il consumo di cannabis. Da quando è stato instaurato lo stato d’emergenza, almeno 5 artisti o attivisti dei diritti umani sono stati arrestati e condannati con procedure velocissime.

E’ il caso di Adnen Meddeb e Amine Mabrouk, volontari al Festival di Cartagine, che si trovavano in strada qualche minuto dopo le 21, all’inizio del coprifuoco del 28 novembre. Saranno arrestati a norma della legge 52, perché trovati in possesso di cartine per sigarette.

Qualche giorno prima dell’attentato, il 19 novembre, è toccato al cineasta e produttore indipendente Alaeddine Slim, il cui domicilio è stato perquisito cercando tracce di attività terroristiche. Presso di lui si trovavano Atef Maatallah, pittore e Fakhri El Ghezal, fotografo. Tutti e tre sono stati arrestati da 15 poliziotti armati che, non essendo riusciti a trovare indizi di attività terroristiche, li hanno arrestati per consumo di cannabis, spiega Ismaël Leamsi, cineasta e cofondatore di Exit Productions insieme a Alaeddine Slim.

Uno degli avvocati dei tre giovani, Ayoub Ghalloussi, ci spiega che, dal suo punto di vista, il caso invece mette in evidenza il lavoro approssimativo delle autorità. “ Se si spicca un mandato di perquisizione per un motivo, non si può aprire un’inchiesta per un’altra ragione, a meno che non ci si trovi in flagranza di reato, e non è il caso dei miei clienti”

Questo caso che fa seguito ad altri imprigionamenti di giovani cosiddetti “consumatori di cannabis” illustrano, malgrado tutto, un specie di rincorsa alla performance (poliziesca) e una lettura amplificata delle leggi.

Perquisizioni, arresti e sovraccarico di dossier

Dall’inizio dello stato di emergenza il 24 novembre scorso, ci sono stati, secondo i dati del Ministero degli Interni, 3000 perquisizioni che hanno dato luogo a 306 fra arresti e detenzioni (conteggio fino al 7 dicembre). Ossia una media di 200 perquisizioni e 20 arresti al giorno.

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A cura di Inkyfada

Dal gennaio 2015 e fino alla fine del mese di novembre si contano 2934 arresti legati a fatti di terrorismo. E secondo una dichiarazione di Raoudha Grafi, presidente dell’associazione magistrati, sono state avviate 1697 istruttorie legate al terrorismo nel 2015.

A cura di Inkyfada

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Otto giudici dovrebbero prendere in carico le istruttorie sui casi di terrorismo, il che fa una media di 210 istruttorie per ciascun giudice, cifra che spiega in parte la lentezza delle procedure. Mourad Massoudi, presidente dell’Associazione dei giovani magistrati, ci dice che lo scorso ottobre è stato fatto uno sciopero per aumentare il numero dei giudici incaricati dei casi di terrorismo e per far fronte alle campagne di intimidazione nei confronti dei giudici.

Afferma che, da quando c’è lo stato di emergenza, appena vi è un elemento riguardante il terrorismo in un dossier, il giudice a cui è affidato, lo scarica al polo anti- terrorista, aumentando così il numero di casi da trattare.

Se si fa un confronto con il 2013, si vede che all’epoca si contarono 1155 arresti legati a terrorismo. E’ nel 2014 che la cifra arriva quasi a raddoppiare con 3017 arresti sempre per fatti legati al terrorismo, fino alla metà di dicembre. In tutto, 571 persone sono state deferite alla giustizia per l’invio di jihadisti nelle zone di conflitto e altri 2466 sono implicati in attività terroristiche, sempre secondo le cifre del Ministero.

a cura di Inkyfada

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Amna Guellali ci tiene a sottolineare un nuovo elemento: l’assegnazione a residenza vigilata per le persone di ritorno dalla Siria, sempre più utilizzata dalla autorità.Diverse testimonianze concordanti dicono che di fatto si tratta di persone rientrate da molto tempo Amna Guellali menziona in particolare il caso di un ex prigioniero di Guantanamo, vittima di persecuzione da parte della polizia e posto in residenza sorvegliata. “Eppure, non esistono procedimenti o processi a suo carico

Il ritorno dello stato di emergenza e della retorica securitaria

Di fronte a queste derive contro cui raramente i cittadini intentano azioni giudiziarie, continua l’impunità. Per molti tunisini il dispositivo dello stato di emergenza è diventato pressoché banale, come conferma il ricercatore presso il Carnegie Middle East Center Hamza Meddeb che si trova a Tunisi.

L’opinione pubblica rimane abbastanza preoccupata per la questione securitaria, perciò anche se le persone criticano gli abusi commessi contro le libertà durante questo periodo, la minaccia terrorista diviene pesante e facilmente si può banalizzare lo stato d’emergenza. Il rischio è di cadere in una certa normalizzazione dell’instaurazione di misure restrittive appena c’è un pericolo e che le persone l’accettino”

Per Hamza Meddeb, il dibattito non deve essere quello che contrappone le libertà alla sicurezza, ma piuttosto quello sui motivi per cui si ricorra ancora a questo testo e sul perché niente sembri cambiare, malgrado gli ultimi attentati di quest’anno. “Il ricorso alla forza e agli arresti a tutto spiano non riescono a nascondere la mancanza di un rimaneggiamento del settore della sicurezza. Lo ripeto ancora, ancora non abbiamo una reale strategia di lotta al terrorismo e il problema non verrà risolto cambiando le persone incaricate”

Cambiamenti di persone invece di una vera riforma del sistema

All’indomani dell’attentato del 24 novembre, il capo del governo Habib Essid ha nominato un vecchio quadro di Bourghiba, Abderrahmane Belhaj Ali, come nuovo direttore della Sicurezza nazionale. Secondo la rivista Leaders, l’uomo sarebbe stato incaricato della guardia presidenziale nel 1987, prima di essere inviato in Mauritania come ambasciatore da Ben Ali. Egli dunque non ha esercitato funzioni nella sicurezza da più di vent’anni. Così come Rafik Chelly, recentemente dimesso dalle sue funzioni di segretario di stato per le questioni della sicurezza, e che era considerato un riferimento in materia di lotta al terrorismo.

Questi licenziamenti in serie e la mancanza di riforma del settore della sicurezza continuano a mostrare le lacune di un sistema, già messe in evidenza dopo gli attentati del Bardo e Sousse, in un rapporto dell’International Crisis Group. Di fronte a queste difficoltà, la questione delle libertà in cambio della sicurezza è diventato più uno strumento di retorica politica che una misura efficace

Retorica politica e assenza di contro-poteri

“oggi il problema è duplice: da un lato c’è il ricatto che viene fatto nel dibattito pubblico sullo scambio fra meno libertà in cambio di sicurezza. Dall’ altro c’è questa mancanza di riforme che perdura. Il fatto che ciascuna misura presa dipenda dal potere discrezionale del Ministero degli Interni e dalla presidenza della Repubblica, lascia spazio all’impunità. Non vi sono meccanismi parlamentari in grado di controllare le derive, né la possibilità di fare ricorso alla giustizia contro questa situazione” aggiunge Hamza Meddeb

Come indica uno studio del Carnegie Middle East Center sulle “opportunità mancate” per riformare il settore in Tunisia, la vittoria di Nida Tounes alle elezioni legislative del 2014 è lungi dall’aver segnato un’avanzata in materia.

In teoria la formazione di un governo di coalizione fra il partito secolare Nida Tounes e Ennahdha (islamista, n.d.t) potrebbe condurre a uno sforzo concertato per ottenere un controllo significativo sul settore della sicurezza. Ma nella pratica, il settore potrebbe divenire un luogo di contestazione fra i principali partiti, considerato che i loro membri potrebbero tentare di sfruttare la rivalità fra le parti per proteggere l’autonomia del settore della sicurezza e i rispettivi interessi.

Nel rapporto dell’ International Crisis Group, il ricercatore Michaël Ayari invita anche a riformare le forze di sicurezza interna, denunciando la politicizzazione delle riforme e il malfunzionamento. Questo rapporto è datato luglio 2015, così come i numerosi articoli che sono stati scritti quest’anno sulla mancanza di cambiamenti all’interno del Ministero degli Interni.

In particolare fra il 2012 e il 2014, agli occhi delle FSI (Forze di Sicurezza Interna), il linguaggio della rivoluzione e della transizione democratica è divenuto simbolo di lotte di parte e di destabilizzazione. Da un altro lato, la questione della riforma securitaria è stata fagocitata dalla polarizzazione politica. In quel periodo numerosi anti-islamisti accusavano Ennahdha di mettere in funzione un apparato della sicurezza parallelo che era all’origine diretta o indiretta del jihadismo. Da parte loro i”rivoluzionari” pro-Troika  non si fidavano dell’istituzione. Alcuni la consideravano un entità anti-rivoluzionaria di cui occorreva frenare gli slanci golpisti. Da qui la loro difficoltà a erigere la questione della sicurezza al rango delle priorità politiche.

Bisogna forse anche ricordare che la Tunisia ha firmato il 4 novembre 2015 un accordo per 23 milioni di euro con l’Unione Europea destinato a finanziare un programma di appoggio alla riforma e alla modernizzazione del settore della sicurezza in Tunisia.

Gli ultimi elementi dell’inchiesta sull’attentato del 24 novembre svelati da Inkyfada mostrano ancora le difficoltà, malgrado le numerose fonti di informazioni, a circoscrivere l’ampiezza della minaccia terrorista in Tunisia.. Di fronte a questo pericolo, facilmente strumentalizzato dal discorso politico, la questione delle libertà gioca un ruolo minore.

Ma ancora di più, nonostante le testimonianze e le denunce di queste pratiche che Inkyfada ha raccolto, il silenzio dei più e l’assenza di contro-poteri nei confronti degli abusi polizieschi, mostrano l’esistenza del pericolo di un progressivo consenso dei cittadini verso un ritorno del potere autoritario. L’efficacia di questi metodi si fa anche attendere e pone il problema di una riforma che vada in profondità, necessaria. Di fronte al logoramento della sicurezza e al ripetersi degli attentati, la banalizzazione dello stato di emergenza e delle sue derive è anch’essa una minaccia alla transizione democratica in Tunisia.

L’articolo originale è apparso il 10 dicembre 2015 su https://inkyfada.com/

https://inkyfada.com/2015/12/terrorisme-excuse-droit-liberte-atteinte-police-tunisie/

Traduzione dal francese a cura di Patrizia Mancini