Tunisia, normalità ed eccezione

Car SantiSantiago Alba Rico

Se vogliamo comprendere la situazione della Tunisia a cinque anni dalla rivoluzione del 14 gennaio 2011, dobbiamo lasciare da parte le celebrazioni ufficiali tenutesi nel palazzo di Cartagine, dove il presidente più vecchio del pianeta si è scagliato contro i suoi oppositori politici -molti dei quali avevano boicottato la cerimonia- e tornare indietro di qualche giorno, al fine settimana del 9 e 10 gennaio scorso, quando il partito Nidaa Tounes, a capo del governo, ha tenuto il suo congresso fondativo, tante volte rimandato.Nida Tounes, partito messo insieme in tutta fretta nel 2013 per far sloggiare il partito islamista di Ennahda dal potere, mentre si fondava, stava già cadendo a pezzi. Un po’ prima del Congresso, l’ala “sinistra” di questa organizzazione, concepita per riciclare il vecchio regime, ha abbandonato il partito con l’intenzione di fondarne uno nuovo; subito dopo alcuni dirigenti delusi del risultato si sono dimessi e hanno formato una corrente dissidente. Il motivo? L’insistenza di Beji Caid Essebsi, Presidente della Repubblica, nel voler imporre suo figlio Hafhed come segretario generale. Risultato? Il gruppo parlamentare di Nidaa Tounes perde la maggioranza a favore di Ennahda,  sempre compatto e disciplinato, mentre il partito di Essebsi, abbandonato perfino dagli intellettuali che lo avevano sostenuto contro Marzouki alle ultime elezioni, appare sempre più simile – in corpo e in anima- all’RCD del dittatore Ben Ali.

L’ “eccezione” tunisina ha, a sua volta, molte eccezioni, dalle quali emerge la vecchia normalità della dittatura. A partire dall’economia, in cui nulla è cambiato rispetto all’epoca di Ben Ali, con la stretta dipendenza del Paese dagli investimenti stranieri e dal turismo a buon mercato, e un bilancio inchiodato al pagamento del debito. Secondo il Comitato per la Cancellazione del Debito del Terzo Mondo (CADTM), l’82% dei nuovi crediti concessi dalla Banca Mondiale e dal FMI sono destinati a pagare gli interessi del debito contratto da Ben Ali, illegittimo e odioso, con la conseguenza che negli ultimi cinque anni il debito estero tunisino è duplicato, passando da 11,5 milioni di Euro a oltre 22 milioni. Nel bel mezzo della crisi globale, con il settore turistico paralizzato dalla minaccia terroristica e l’industria dei fosfati in pieno marasma, il settore informale rappresenta il 54% dell’economia, mentre il 50% è ancora nelle mani di un pugno di famiglie; non hanno smesso di crescere inflazione e disoccupazione, quest’ultima raggiungendo in alcune regioni il 40% e colpendo soprattutto i più giovani.

Se questi sono i dati, non stupisce che -secondo il Foro per i Diritti Economici e Sociali- nel 2015 ci siano state 4.288 proteste sociali e 498 suicidi o tentati suicidi. E nemmeno stupisce che -secondo l’organizzazione Homeland- 6.000 giovani tunisini si siano uniti alle fila dello Stato islamico in Siria.

Il fatto è che, per quanto riguarda le libertà civili, si retrocede più che avanzare. L’elenco è lungo: pressioni sui giornalisti, detenzioni arbitrarie, ritorno all’uso della tortura, eccessi nella proclamazione e nella gestione dello stato d’emergenza, ricorso all’art. 52 del vecchio codice penale per processare attivisti per consumo di hashish o alla legge 230 per incarcerare giovani accusati di omosessualità. Tutti questi abusi sono stati denunciati dall’Osservatorio per la Libertà di Stampa, dalla Lega per i Diritti dell’Uomo e perfino da Amnesty International.

A tutto ciò si aggiunge l’abbandono dei martiri e dei feriti della rivoluzione, il disprezzo verso la Giustizia Transizionale e le sue precarie istituzioni, la riabilitazione discreta o ufficiale (pensiamo al progetto di legge a favore della “riconciliazione”) di politici e imprenditori del vecchio regime e, in generale, la sospensione di fatto della Costituzione, la più laica e liberale del mondo arabo, che non è mai arrivata ad entrare in vigore. Il permanente allarme antiterrorista serve da pretesto per “congelare” le rivendicazioni del 2011 in nome della sicurezza, secondo la giustificazione fornita qualche giorno fa dalla presidente di UTICA (la Confindustria tunisina), fresca di premio Nobel per la Pace: “Se è necessario essere più severi nel campo delle libertà per garantire sicurezza, credo che questa scelta vada fatta”.

In piena crisi politica ed economica, con le cause sociali e politiche dell’Intifada del 2011 ancora tutte presenti e spesso aggravate, si può ancora parlare di una “eccezione tunisina”? Sì. E per tre ragioni.

La prima, per contrasto, riguarda la situazione regionale, dominata dal caos, dalla guerra civile e dal ritorno, senza maschera, delle tirannie e del jihadismo terrorista. Se si pensa alla Libia o all’Egitto, o anche alla repressiva Algeria in via di transizione, nonchè alla fragilità esplosiva delle frontiere, è quasi un miracolo che la Tunisia conservi un minimo di stabilità e -soprattutto- un assetto istituzionale formalmente democratico.

La seconda ragione si riferisce proprio a questo assetto istituzionale. Come ricorda bene Gilbert Naccache, il noto intellettuale di sinistra incarcerato sotto il regime di Bourguiba, la rivoluzione in Tunisia non ha raggiunto i propri obiettivi ma ha ottenuto due rotture: una con la logica del partito unico, l’altra -inseparabile- con la logica del pensiero unico.

La terza eccezione è, a mio parere, la più importante, perchè segna una rottura storica e regionale decisiva. Torniamo all’inizio. Nel congresso di fondazione di Nidaa Tounes ci sono stati molti indizi di restaurazione: tra gli altri la presenza di Caid Essebsi, Presidente della Repubblica, al quale la Costituzione vieta qualunque allineamento di partito. Ma c’è stata anche una presenza “scandalosa”: quella di Rachid Ghanouchi, invitato al congresso, il cui partito islamista Ennahda conta due ministri nel governo. Questa alleanza tra la destra laica e la destra islamista, per molti contro natura, lascia fuori gioco i settori più sfavoriti e i giovani rivoluzionari del 2011, però rappresenta un’eccezione radicale rispetto alla logica delle dittature arabe, che avevano tutte basato -e basano- la propria legittimità sulla persecuzione dell’Islam politico: pensiamo all’Egitto.

Questa coalizione tra i papaveri del vecchio regime e gli islamisti da quello perseguitati, è indubbiamente il modello che UE e USA volevano per la regione, e quello che appoggiano a Tunisi. Potrà non piacerci, ma in realtà è una buona notizia.

Senza l’integrazione politica dell’islamismo i popoli della regione non potranno mai liberarsi delle dittature che dicono di volerlo combattere, nè dell’islamismo stesso che si legittima contro di loro. Combattiamo la “normalità” tunisina; proteggiamo la sua “eccezione”.

Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile