Intorno al burkini

Une-sortie-burkini-dans-un-parc-aquatique-fait-polemique

Crédit photo.: parismatch.com

Costanza Jesurum

In Francia i sindaci di alcuni paesi sulla costa, in reazione al recente attentato di Nizza, hanno emesso un’ordinanza che vieta alle donne l’uso del burkini, un costume da bagno che ha la peculiarità di coprire tutto il corpo, e che in questo modo permette alle donne islamiche più fedeli all’ortodossia – vuoi per convincimento vuoi per appartenenza a un clan – di fare il bagno in pubblici stabilimenti. Non ho avuto modo di leggere dichiarazioni da parte dei responsabili, mi è parso comunque il tentativo di un atto simbolico – in linea con una certa tradizione francese, di reagire alle aggressioni rivendicando una tradizione di laicità, e di ostilità ai segni simbolici collegati alle appartenenze culturali: già in Francia per esempio non si dovrebbe portare il velo a scuola, in tutte le sue declinazioni.
L’episodio ha dunque prima di tutto una lettura politica, che riguarda la reazione al terrorismo variamente connesso all’Isis: una sorta di messaggio di resistenza sulla semantica più visibile, che sono i vestiti delle donne e i loro corpi. Il dibattito pubblico però ne è stato colpito, addentrandosi invece nei mille rivoli della riflessione di genere che da almeno un secolo è indotta dal confronto con il mondo islamico.

Molte considerazioni per me sono opportune.


La prima riguarda la grande vastità del mondo islamico e di tutte le declinazioni possibili che offre al suo interno per quanto riguarda l’adesione all’ortodossia e la situazione delle donne. Io non sono una grande esperta di Islam, ma mi pare evidente che si passa dall’eccesso di una falsa ortodossia, che in realtà è una sua versione caricaturale e postmoderna che è il caso dell’Isis e di tutte le sue parrocchie limitrofe, a organizzazioni culturali in cui l’ortodossia si compenetra a un patriarcato che ha molti punti in comune con quello che abbiamo lasciato alle spalle – ivi comprese aree di misoginia e di aggressioni al femminile indicibili ma anche con situazioni di felicità e buona organizzazione di vita, fino a organizzazioni familiari in cui le donne islamiche, pur mantenendo la fede, con velo o senza lavorano producono e quando parlano ricordano certe nostre professioniste di Napoli o di Palermo nel loro coniugare partecipazione alla vita collettiva e piatto di pasta più grosso al maschio di casa – di questo tipo io nella mia frequentazione privata del mediooriente ne ho conosciute moltissime – e fino a aree in cui esiste un femminismo di marca islamica, una riflessione di genere e quant’altro nelle aree più metropolitane.

Questa grande varietà di modalità va sempre tenuta in mente quando si entra in questi dibattiti – perché riguardano anche questo dibattito. E’ piuttosto rischioso ritenere che ci sia un solo modo di vivere il velo, e tutte le norme sul femminile che noi vediamo distanti, perché non esiste un modo unico. Ci sono donne che portano il velo con la naturalezza di un’abitudine, altre con la rivendicazione di un’identità di fronte all’aggressione eurocentrica, altre ancora come una copertura tranquillizzante dalla ubris di un maschilismo insopportabile e trasversale alle culture – manco alle islamiche piace lo sguardo sulle chiappe alla fermata dell’autobus per esempio- e altrettante lo vivono come la limitazione a un mondo di scelte, specie io credo nei contesti politici e sociali in cui quella limitazione è vigente e socialmente efficace. Mi posso sbagliare, ma insomma la copertura del corpo è vissuta in modo diverso e simbolizzata in modo diverso a seconda della contestualità quotidiana a cui è associata.
Quindi parlare solo di un modo di vivere i vari tipi di velo è fuorviante. Inoltre, correlare questo unico modo solo alla religione è molto comodo e anche ipocrita: il corpo delle donne è una questione politica in Europa come altrove, sono regimi di destra, dittatoriali, che usano la fustigazione del femminile come semantica politica, mentre noi continuiamo a ritenere che sia solo una questione di Islam. Eppure anche nel nostro paese, le libertà delle donne e le loro azioni sono oggetto di un dibattito politico a cui eventualmente la religione offre ancora un blando pretesto – ma la questione è principalmente civile.

Resta il fatto comunque, che in questo largo mondo esiste un ventre di relazioni rigidamente asimmetriche rigidamente codificate e che mettono le donne in una posizione di grave mancanza di libertà, vulnerabilità, qualità di vita terribile. Se nella mia esperienza di vita privata ho avuto infatti modo di conoscere un islam felice di donne felici madri e all’uopo anche lavoratrici, nella mia esperienza professionale ho dovuto raccogliere storie di donne minacciate di morte perché non volevano sposare un uomo deciso dalla famiglia, di donne stuprate dal prozio vecchio che le ha prese in sposa a sedici anni, di donne che devono camminare tre passi indietro per strada, a cui ci si può rivolgere in un certo modo, o che si possono lapidare per certe altre cose. In questa cornice simbolica il velo assume il significato per noi, di una cancellazione dell’identità che permette il dominio sulla libertà. Noi occidentali e noi donne occidentali abbiamo un uso quotidiano fortissimo della semantica del vestito e del corpo, ne facciamo un secondo alfabeto e linguaggio altamente funzionale, e quindi ci risulta sconvolgente che a delle donne tutto questo sia proibito. Questo nostro sofisticatissimo linguaggio è d’altra parte il lusso di un primo mondo che dispone di una larga messe di risorse economiche che possono essere utilizzate per fare operazioni di questo genere, quando le risorse diminuiscono diventa relativamente meno importante – non è che il maschio medio palestinese che ho conosciuto io ci avesse tutto sto parterre de cravatte. Tuttavia l’asimmetria, resiste e non so quanto a ragione, i vestiti delle donne ne sono per noi il segno.

Di conseguenza, la piccola ordinanza francese, è stata  un’occasione agevole per parlare di cosa fare di questa questione di genere, che ci ricorda aree del passato che abbiamo lasciato da poco – e voglio ricordare che si le abbiamo lasciate e quindi basta con questi sciocchi e ingiusti paragoni il nostro presente è diverso e va difeso nella sua diversità – e a cui tutto sommato non abbiamo gran voglia di ritornare, neanche in quanto maschi reazionari: al contrario di quel che dice Houellebeque o Adinolfi, il patriarcato è oneroso, si devono mettere al mondo molti bambini e arrivano a casa molti meno soldi, non vedere donne belle in giro la sera è noioso e insomma al di la delle battute sessiste, l’asimmetria ci piace di un certo raggio, ma non esagerato. Ci piacciono le donne che guadagnano di meno, ma non che non guadagnano affatto, che non possano lavorare full time, ma mica part time eh. E anzi, non vogliamo proprio essere confusi con questi orientali che ci ricordano antipaticamente ciò che non vogliamo essere ma siamo stati.

D’altra parte noi donne occidentali abbiamo viva e forte quest’esperienza. Siamo passate da veli simili e ricordiamo che non ci piacciono e non ci torneremmo, in mezzo ai tanti modi delle donne islamiche che portano il velo, tra le vere devote, le vere sicure della propria identità, le vere avvocatesse col velo, e le vere matriarche felici , le vere nostalgiche, noi vediamo anche quelle che invece ci stanno strette, che non lo vorrebbero, che stanno scomode, che subiscono scelte altrui, che subiscono leggi ingiuste, che subiscono poligamie, vediamo i vari gradi della felicità e della tristezza che sono stati nostri e quindi, le ragazzine che vogliono studiare e non possono, non ce la possiamo cavare alzando le mani con la storia del rispetto del mondo altro. C’è davvero un nodo – quel nodo ha a che fare con tante cose oltre alla religione, questioni di politica, di femminismo, di classe e chi sa cos’altro ma il nodo esiste e la storia del burkini ce lo ricorda.

Qualcuna allora ha esultato, come Lorella Zanardo sul provvedimento, sentendo quelle cose che tutte sentiamo. Molte hanno visto nella piccola ordinanza una soluzione radicale. Ma di fatto è una mossa falsa, che non aiuta la politica e men che mai le donne che si trovano a viverla. Perché da una parte ci può essere un modo egosintonico, deciso e sentito di mettere il burkini, lo stesso modo egosintonico deciso e sentito che può indurre una povera madre di famiglia a smazzarsi un pranzo di Natale per 35 parenti tra cui svariati maschi che non alzeranno un angolo di chiappa, e non si ha nessun diritto e ragione democratica per poter dire a chi fa delle scelte culturalmente condivise di non operare più quelle scelte. Questo è un modo per trattare le donne nel modo maschilista che si vuole contestare. D’altra parte, se le donne sono invece costrette a mettere il burkini, la risultante sarà che senza al mare non ci vanno proprio e fine della questione.

Soprattutto, quando queste cose si affrontano con la dovuta serietà, l’ultima cosa da toccare sono i simboli estetici, i simboli culturali che afferiscono alla condivisione di un retroterra. Non si devono proibire né burqa, né turbanti, né crocifissi, né stelle di David. Questi sono oggetti simbolici che possono essere continuamente riiscritti in un orizzonte culturale postmoderno e reinterpretati, rivisti in modo diverso. Lasciarli vuol dire mettere in scena una terra di mezzo della negoziazione e della contaminazione. Le cose importanti sono altre: sono le occasioni di istruzione e di lavoro, sono le possibilità di lavoro e di sostegno giuridico in caso di aggressione, sono i centri antiviolenza e le opzioni di rifugio, sono le borse di studio e i convegni, le cose da fare sono quelle che implicano la possibilità di una libera esplorazione culturale autonoma e autodeterminata. Dialoghi tra donne per esempio, e forse, altrettanto importante, dialoghi tra uomini. Ma dialoghi, appunto.

Dal blog https://beizauberei.wordpress.com/

articolo apparso il 18 agosto 2016