L’oasi di Jemna: una storia di resistenza

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La popolazione di Jemna assiste all’asta dei datteri Foto tratta dalla pagina facebook Jemnà 24/24

Habib Ayeb

Da qualche settimana l’attenzione dei tunisini è rivolta a una piccola oasi chiamata Jemna che si trova nel deserto tunisino, da qualche parte fra le oasi di Kebili, a nord e quelle di Douz, a sud (1). Alcuni, in particolare il governo, una parte della “classe” politica e dei media dominanti, vi vedono un’ esemplare violazione della legge e un imperdonabile oltraggio all’autorità e all’haybat (prestigio) dello Stato. Secondo loro, quello che sta succedendo a Jemna ha la sua origine in una forma di banditismo organizzato che occorre condannare e sanzionare. Altri, in particolare gli abitanti dell’oasi, vi vedono un’occupazione legittima di terre che tornano a loro di diritto. Altri ancora colgono l’occasione insperata di opporsi ai poteri attuali e di organizzare mobilitazioni politiche con obiettivi e visioni diverse, a volte in contraddizione fra loro. Per superare , anche un minimo, le polemiche e i discorsi che stanno venendo fuori queste ultime settimane, è importante rivisitare, anche brevemente, la storia di questa piccola oasi che sta diventando il fulcro di cristallizzazioni politiche che, secondo molti osservatori, vanno oltre, la natura del problema e la situazione reale sul terreno.

Jemna, un problema “coloniale”

Jemna è “nata” all’inizio del XX secolo, solo qualche anno dopo l’inizio della colonizzazione francese che è stata, all’inizio, una colonizzazione fondiaria.(2)

Mentre la maggior parte dei coloni aveva scelto di installarsi a nord e nord-ovest, altri avevano preferito andare verso sud, probabilmente per il sole, ma ancor più per specializzarsi nella produzione di datteri la cui esportazione verso la Francia era sicuramente più facile dato che non subiva la concorrenza delle produzioni “locali” (nella madre patria). L’originalità del prodotto era evidentemente un elemento centrale nella scelta di questi ultimi.

Fu così che Maus de Rolley si installò a Jemna e creò, nel 1937, il nuovo palmeto, una “estensione” all’esterno della vecchia oasi. Oggi il palmeto copre una superficie di circa 306 ettari di cui 185 coltivati a palma da dattero, in tutto quasi 10.000 piante. (3)

Sebbene non sia riuscito a verificarlo nei documenti d’archivio, appare chiaro come le popolazioni locali che avevano le suddette terre in proprietà collettiva e indivisibile non abbiano beneficiato di alcun tipo di compensazione. Una pura e semplice espropriazione, rimasta iscritta nella memoria collettiva locale durante il periodo post- coloniale, specialmente a partire dal 2011 con la caduta di Ben Alì. Ma ci ritornerò più avanti.

Con la conquista dell’indipendenza le nuove autorità del paese avevano in mente di proseguire con la “modernizzazione” tecnica del settore agricolo, adottando in pieno il modello coloniale, basato sulla grande proprietà privata, la meccanizzazione, l’uso intensivo di prodotti chimici (concimi, insetticidi, pesticidi, sementi e piante selezionate…), la concentrazione della terra agricola, l’ampliamento degli impianti idrici e l’intensificazione delle colture. Tale scelta fu assunta dai membri influenti dell’élite politica dell’epoca, con a capo Habib Bourghiba che dichiarava, in occasione di un discorso pubblico tenuto nell’oasi di Tozeur nel 1964 : “…per cavare dalla terra quello che può dare, è necessario mettere a profitto le tecniche moderne(…) l’esempio dei vecchi coloni francesi è qui per istruirci”

Basterebbe solo questa dichiarazione che erige l’agricoltura coloniale a “modello da seguire” per rivelare la visione “modernista” del nuovo presidente e dei suoi amici dell’epoca, fra cui un certo Beji Caid Essebsi che occupa da quasi due anni il palazzo di Cartagine (residenza della presidenza della Repubblica, n.d.t)

Così, per settant’anni, il potere non ha mai smesso di orientate il settore agricolo verso la modernizzazione tecnica con un approccio politico che rompe con le strutture sociali locali, il diritto tradizionale, il saper fare locale e le varie forme di appropriazione collettiva considerate come arcaiche e soprattutto come limiti e freni allo sviluppo economico del paese. Rotture che spiegano in grandissima parte gli attuali conflitti sulle proprietà fondiarie che si stanno moltiplicando un po’ ovunque nel paese, non soltanto a Jemna.

Nel 1964 quando il potere si risolse, alla fine, a nazionalizzare le terre dette coloniali, decise di raggrupparle in proprietà esclusiva dello Stato, cioè quelle che quelle che oggi si definiscono “terre demaniali” (4). oppure le terre “socialiste” (aradhi ichtirakyya) (5), invece di “restituirle” agli eredi dei vecchi proprietari o di redistribuirle ai piccoli agricoltori e a quelli senza terra. Questa scelta fu rafforzata dalla politica delle “cooperative” che intendeva raggruppare le terre agricole in strutture ricalcate sul modello dei kolkhoz sovietici e sopprimere le proprietà private, a cominciare dalle piccole aziende contadine e dalle terre collettive, dette tribali.

Dopo gli anni’60 il paese si lancia in una politica di liberalizzazione dell’agricoltura che subirà fino ai nostri giorni un’accelerazione verso un piano di aggiustamento strutturale agricolo (PASA), imposto nel 1986 dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, all’indomani della rivolta del pane del 1984 . Durante questo lungo periodo l’agricoltura tunisina s’iscrive pienamente nel modello intensivo, produttivista e orientato principalmente all’esportazione, applicando “ciecamente” la teoria “dei vantaggi comparativi” (6)

La scelta di sviluppare la produzione di datteri e di estendere la superficie dei palmeti rientra perfettamente in questo quadro, anche perché il sud tunisino beneficia di condizioni climatiche che favoriscono la monocoltura (7) delle palme da dattero.

In parallelo, una parte delle terre demaniali fu assegnata come proprietà privata o data in affitto per periodi di lunga durata, a investitori privati, in genere provenienti dai circoli di potere e vicini al partito unico (8).

Fu così’ che, fra il 1972 e il 2002, il palmeto venne gestito dalla società STIL ( Société Tunisienne des Industries Laitières) che fallì nel 2002, per poi passare sotto il controllo di due persone vicine a Ben Alì, un imprenditore di lavori pubblici e un alto quadro del Ministero degli Interni, con un nuovo contratto di affitto. In tutti questi anni gli abitanti di Jemna hanno cercato di recuperare il palmeto rivolgendosi ai vari responsabili politici incaricati di seguire il dossier, in particolare quello riguardante le terre demaniali. Numerose lettere sono state inviate, invano. La posizione ufficiale del potere non cambia: le terre appartengono allo Stato e dunque non c’è nulla da negoziare.

La rivoluzione nei territori

Si è dovuto attendere l’inizio del 2011 e la caduta di Ben Alì perché le cose cominciassero a muoversi nel territorio, nonostante l’opposizione formale delle nuove autorità in carica e quella dei diversi governi succedutisi dal 2011 in poi.

Riprendiamo il filo della storia dal gennaio 2011:

Gennaio 2011 : il “Comitato rivoluzionario di Jemna” prende possesso del palmeto contestato e allontana i vecchi “locatari”;

Abbastanza rapidamente vengono presi i contatti con le autorità nazionali, ma senza che si giunga a una soluzione riguardo al fondo della questione e cioè il diritto delle popolazioni locali alle terre e ai palmeti dell’oasi.

In fretta e furia nasce un’associazione , ma che non ha mai ottenuto uno statuto ufficiale e tuttora non ha esistenza legale per i poteri pubblici.

  • Passano gli anni e la gestione del palmeto migliora, i conti vengono controllati costantemente da un ufficio di consulenza indipendente installatosi a Gabes. Gli utili si fanno sempre più considerevoli. Dopo perdite di diverse centinaia di migliaia di dinari fra il 2010 e il 2011, i conti dell’anno 2015 mostrano utili per più di un milione e mezzo di dinari tunisini (pari a quasi 608.000 euro n.d.t ). Erano decenni che non veniva registrato un tale bilancio. Il signor Tahar Tahri, presidente eletto dell’Associazione per la Difesa delle Oasi di Jemna”, ci ha spiegato, durante una recente visita all’oasi, che “i deficit registrati prima del 2011 erano “organizzati” artificialmente per “coprire” i furti e la corruzione che rappresentavano la normale modalità di gestione.

Sul piano politico la buona salute economica dimostrata dall’associazione ha giocato a suo favore e ha attirato il sostegno reale della popolazione dell’oasi. Io stesso ne sono stato testimone in occasione di una assemblea generale pubblica che si è svolta a metà settembre 2016 nella piazza centrale del villaggio, con la partecipazione di un gran numero di persone di generazioni diverse . Durante questa assemblea si sono espresse liberamente molte persone per dare consigli e raccomandazioni e rispondere alle proposte del governo trasmesse dal Ministro incaricato per i possedimenti statali ((amlak eddawla).

Ciascuno a suo modo, tutti quelli che sono intervenuti si sono espressi contro le soluzioni proposte e il comitato nominato dall’associazione ha adottato la stessa posizione, come si era impegnato a fare nell’intervento del suo presidente all’inizio dell’assemblea. Un bell’esempio di democrazia locale (9).

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Le proposte fatte in occasione della riunione in cui si erano incontrati, all’inizio di settembre 2016 a Tunisi i rappresentanti dell’associazione e gli alti responsabili del segretariato di Stato preposto ai possedimenti dello demaniali e delle questioni fondiarie, con a capo Mabrouk Korchicd, non riguardano veramente lo situazione legale dei terreni che lo Stato considera ancora sua proprietà esclusiva, bensì la relazione fra Stato, proprietario legale, e l’associazione. Tali soluzioni toccano precisamente la “gestione” del prossimo raccolto di datteri che dovrà cominciare nelle prossime settimane. Per riassumere, l’associazione deve accettare i due punti seguenti per evitare un intervento di forza da parte dello Stato:

  • l’associazione consegna tutto il prossimo raccolto allo Stato che si impegna, a sua volta, a restituire le spese sostenute per l’esercizio in corso;

  • L’associazione si trasforma in società per la messa in valore e lo sviluppo agricolo, (SMVDA), secondo lo statuto del 1990 volto a incoraggiare l’investimento privato nei terreni demaniali. Da parte sua, lo Stato s’impegna ad affittare il palmeto a questa SMVDA per un lungo periodo (normalmente si tratta di 40 anni).

In attesa di una soluzione definitiva, lo Stato minaccia di proibire, se necessario con la forza, l’organizzazione della vendita all’asta del raccolto(per pianta)(10).

Così facendo, lo Stato rifiuta completamente il dialogo sulla questione e ogni possibilità di “restituire” la terra e il palmeto agli abitanti di Jemna, che si ritengono gli unici legittimi proprietari. Obbligando l’Associazione ad accettare una delle soluzioni proposte, lo Stato vuole che in essa venga riconosciuto come status legale del palmeto la proprietà esclusiva dello Stato. Questa trappola giuridica non è sfuggita ai membri dell’associazione e alla popolazione locale, da qui il loro rifiuto di dare una risposta positiva alle proposte fatte dai responsabili che seguono il dossier.

Jemna, o il vaso di pandora: il dossier esplosivo delle terre demaniali e della questione fondiaria

Dietro la posizione dello Stato vi è la paura che un suo eventuale “passo indietro”sul dossier specifico e piuttosto caldo di Jemna, che comprenda un riconoscimento dell’attuale occupazione del palmeto e del diritto delle popolazioni locali sulle terre dell’oasi, si traduca con l’apparizione in tutto il paese di centinaia, se non migliaia di altre Jemna. Ciò spiega la situazione di stallo politico odierna a proposito di un problema fondiario complesso che, di fatto, non può essere risolto se non con una politica volontaristica di redistribuzione delle terre demaniali. Tuttavia una tale scelta somiglia a una forma di riforma agraria incompatibile con gli orientamenti liberali dei poteri attuali.

Eppure l’insieme delle difficoltà sociali, economiche e ambientali che attraversano il settore agricolo è di tale ampiezza che il passaggio alla riforma mi sembra inevitabile, contrariamente a quello che pensano i difensori del liberalismo economico, che oggi dirigono lo Stato.

Da parte della popolazione di Jemna e dei membri dell’Associazione, un passo indietro sulla loro principale rivendicazione – il diritto alla terra proprietà dei loro “antenati”- si tradurrebbe inevitabilmente in un riconoscimento implicito dell’illegalità delle loro azioni fin dal 2011, in una rinuncia unilaterale a un bene “comune” e una auto-legittimazione che sarebbe loro fatale.

Su scala politica e territoriale più vasta si sa che l’agricoltura tunisina soffre di numerosi problemi strutturali. Ecco rapidamente qualche elemento per chiarire e andare incontro all’urgenza di dare soluzioni radicali che rompano con le politiche finora applicate da quando il paese ha ottenuto la sua indipendenza politica:

  • una classe contadina di circa 500.000 famiglie (ossia praticamente il 20% della popolazione totale) povera e che non riesce a assicurare all’insieme dei suoi membri la sicurezza alimentare di base;

  • una struttura agraria caratterizzata da palese ingiustizia e diseguaglianza di fronte all’accesso alle risorse agricole e, in particolare, alla terra: gli agricoltori che posseggono meno di 5 ettari costituiscono il 54% dell’insieme, ma dispongono soltanto dell’11% della superficie agricola totale, mentre soltanto il 3% degli agricoltori hanno aziende di più di 50 ettari, ma dispongono del 34% della superficie agricola totale (11);

  • la maggioranza delle grandi aziende agricole produce essenzialmente per l’esportazione con il sostegno attivo dello Stato e del sistema finanziario in maniera da massimizzare i profitti e ridurre i rischi;

  • l’investimento agricolo dei privati (e anche pubblico) è fondamentalmente speculativo e non produttivo. Il primo obiettivo degli investitori è di mettere in sicurezza il capitale, dato che il settore agricolo è relativamente meno esposto a rischi, inclusi quelli politici e geopolitici, rispetto al al settore turistico, dell’industria o dei servizi;

  • Il caso del rapido sviluppo agricolo della regione di Sidi Bouzid è l’esempio lampante delle derive speculative degli investimenti in questo settore. Basti ricordare che il governatorato di Sidi Bouzid, divenuto la principale regione agricola del paese in termini di produzioni, esportazioni e di attrattiva per gli investimenti pubblici e privati, è nello stesso tempo il quarto governatorato più povero della Tunisia con un tasso di povertà superiore al 40%;

  • le “legittime” rivendicazioni che riguardano le terre demaniali, nel passato “coloniali”, sono molto numerose e il caso di Jemna, oggi fortemente mediatizzato, non è che l’albero che nasconde la foresta. Un possibile compromesso tattico fra lo Stato e i militanti di Jemna non farà che rafforzare la determinazione di altre comunità e villaggi a recuperare quelle che considerano le proprie terre;

  • Di fronte a una tale levata di scudi generale sul fondiario agricolo, lo Stato non potrà fare altro che marcia indietro. Allora perché aspettare? Vi è una reale urgenza di rispondere alle aspettative e di riformare il sistema agricolo nel suo insieme, a partire dal fondiario, per più giustizia fondiaria, economica, sociale e ambientale.

    Questo vale per Jemna, cos’ come per tutte le altre regioni e territori del paese.

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A mò di conclusione: il Diritto a difendere (DAD) invece che la Zona da Difendere (ZAD*)

L’attuale mobilitazione per Jemna va molto bene, anche se sembra che alcuni di quelli che si stanno mobilizzando lo facciano più per calcoli politici e poco lungimiranti che per una reale convinzione del fatto che la terra debba appartenere innanzitutto a quelli che la coltivano, per nutrire se stessi e gli altri. Molti fra gli attivisti di questa mobilitazione non hanno difficoltà a sostenere i militanti di questa oasi, ma al contempo rifiutano il principio stesso di redistribuzione della terra agricola ai suoi proprietari legittimi (cioè gli eredi dei vecchi proprietari, espropriati dei loro beni dai colonizzatori). La loro scioccante argomentazione è che la terra agricola sarebbe già troppo frammentata e parcellizzata per favorire un adeguato sviluppo agricolo, quando addirittura non ricadono nei clichés stigmatizzanti sui “contadini (che) sono troppo pigri, ignoranti e incapaci di seguire lo sviluppo delle tecniche e delle tecnologie agricole…”

Il sostegno politico non è realmente efficace se non quando si basa su convinzioni solide , nutrite da una conoscenza minima delle problematiche complesse e profonde che si nascondono dietro questo o un altro avvenimento.

Incontestabilmente Jemna merita il supporto di tutti poiché oggi si trova in prima linea di fronte a un potere che non aderisce ai principi del diritto, della legittimità e della giustizia sociale e ambientale e disposto a disfarsene, anche con la repressione. Il mio sostegno è totale e radicale. Ma, contrariamente a quello che pensano alcuni, Jemna non è un caso isolato con un problema specifico. E’ la punta dell’iceberg sotto il quale si nasconde una ingiustizia generalizzata, il totale insuccesso di settant’anni di politiche fondiarie, agricole e alimentari. Il sostegno a Jemna si deve estendere all’esigenza di una politica agricola “altra”.

Alcuni militanti propongono di fare di Jemna una ZAD sul modello di numerose esperienze che si sono moltiplicate in questi ultimi anni in Francia. A me sembra che bisognerebbe ragionare più in termini di DZA e esigere il principio del diritto inalienabile e incondizionato alla terra e alle risorse naturali che innanzitutto devono servire a nutrire la popolazione, invece di far accumulare capitali.

Questa esigenza di giustizia è talmente urgente che, se nulla sarà fatto, nessuna comunità locale sarà al sicuro rispetto a un processo di spossessamento sempre più selvaggio.

Se le azioni delle popolazioni e dei militanti di Jemna possono sembrare “illegali” rispetto alla legge in vigore, non per questo esse sono meno legittime.

Note

[1] per meglio localizzare Jemna cliccare sul link seguente lien : https://www.google.com/maps/@33.6061738,9.0143555,2514m/data=!3m1!1e3

[2] dal 1886 gli occupanti hanno imposto il catasto in modo da facilitare l’accesso ai coloni, fortemente incoraggiati a installarsi nella nuova colonia, facilitando nello stesso tempo l’espropriazione alle popolazioni locali delle loro terre, di cui una gran parte si trovava nella condizione di non divisione con differenti situazioni “comunitarie”

[3] Vi si trova tra l’altro un castello (borj) a due piani che circonda un patio centrale, costruito dalla famiglia di un colono e che testimonia di un livello di vita più che comodo e verosimilmente di una considerevole produzione. Staccate dal castello si trovano altre costruzioni, oggi occupate dall’associazione che gestisce l’oasi, e che sembrano aver ospitato gli uffici e le officine dell’azienda agricola. In una di queste vecchie officine si possono vedere dei macchinari che possono essere stati utilizzati per la distillazione di datteri per la produzione di alcol, forse l’equivalente dellla Bokha attuale (nome commerciale) che arriva a circa 45°.

[4] le terre demaniali comprendono, oltre alle vecchie proprietà coloniali, i terreni habouss e quelli a statuto equivalente…Durante gli anni ’60 i terreni demaniali contavano più di 700.000 ettari

[5] L’aggettivo ichtirakyya deriva dal nome (arabo n.d.t) del vecchio partito al potere, Parti Socialiste Destourien (PSD) e dal vocabolario politico dell’epoca delle cooperative che Ahmad Ben Salah aveva cercato di instaurare, prima della sua caduta e della fine di questa esperienza nel 1969.

[6] Teoria inventata da David Ricardo in “risposta” alla teoria dei “vantaggi assoluti” proposta precedentemente da Adam Smith

[7] Se la biodiversità naturale e agricola delle oasi tradizionali è di una grande ricchezza, grazie ai loro tre piani di coltivazione, le grandi estensioni di oasi ne sono invece mancanti poiché si limitano quasi esclusivamente alle palma da dattero, dominata dalla varietà “digulet noir”. E’ esattamente la differenza fra l’oasi tradizionale di Jemna e e le estensioni che la circondano.

[8] Il PSD (Parti Socialiste Destourien) dei tempi di Bourghiba era stato ribattezzato RCD (Rassemblement Constitutionnel Démocratique) da Ben Alì, dopo il suo colpo di stato del 7 novembre 1987.

[9] Senza averlo verificato e fidandomi sia delle apparenze che dei discorsi, mi è sembrato che nell’assemblea fossero presenti persone di diverse sensibilità politiche che andavano dalla sinistra, più o meno radicale, fino agli islamisti. E’ interessante notare come l’attaccamento alle terre “dei nonni” e al diritto alle risorse naturali fosse il denominatore comune dei tutti coloro che intervenivano.

[10] la vendita all’asta, prevista inizialmente per lo scorso 18 settembre 2016 si è svolta il 9 ottobre. I potenziali acquirenti arrivano e comprano tutta la raccolta (dalla palma), basandosi unicamente su una stima visiva. I vincitori dell’asta si occuperanno loro stessi della raccolta e copriranno le spese necessarie

[11] MARH (2006). (Ministère de l’Agriculture et des Ressources Hydrauliques). Direction Générale des Études et du Développement Agricole. “Enquête sur les Structures des Exploitations Agricoles – 2004-2005”. Janvier 2006 http://www.onagri.tn/STATISTIQUES/ENQUTES%20STRUCTURES/ESEA%202004-2005.htm

Per più dettagli statistici  :  https://habibayeb.wordpress.com/2013/09/28/le-rural-dans-la-revolution-en-tunisie-les-voix-inaudibles

(*) abbiamo preferito lasciare la sigla originale dell’autore che deriva dal francese, Zone à défendre

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini

L’articolo originale in francese è apparso il 3 ottobre 2016 sul blog di Habib Ayeb, Demmer e sul nostro sito