Tunisia: le riforme economiche non placano le rivolte sociali

Manifestazione a  El Kef Crédit photo. Nawaat.org

Sit in a El Kef
Crédit photo. Nawaat.org

Clara Capelli

 Cooperation and Development Network – Pavia

Come altre economie della regione, la Tunisia continua a muoversi su due sentieri che solo raramente si incontrano e quasi mai comunicano. Da una parte il governo guidato da Youssef Chahed cerca di consolidare i conti pubblici e stabilizzare i dati macroeconomici, programma sostenuto da diverse organizzazioni internazionali quali l’Unione europea, la Banca mondiale, la Banca africana di sviluppo e il Fondo monetario internazionale (FMI). Dall’altra le mai risolte questioni sociali legate a lavoro e servizi pubblici – specialmente nelle regioni dell’interno – riprendono a far sentire la loro voce dopo la vague di proteste del gennaio-febbraio 2016.

A fine marzo nel governatorato di Tataouine, nel sud, alcuni giovani disoccupati hanno ostacolato le attività di diverse compagnie petrolifere bloccandone il trasporto stradale. All’inizio di aprile il Kef, nel nord-ovest, è insorto per la chiusura di una fabbrica di cavi elettrici di proprietà della società tedesca Coroplast, intenzionata a rilocalizzare le operazioni di produzione nella logisticamente meglio connessa Hammamet, lasciando a casa 430 lavoratori (in maggioranza donne). Il 19 aprile i disoccupati di Jendouba, sempre nel nord-ovest, hanno manifestato domandando a gran voce una soluzione per la cronica mancanza di opportunità di impiego nella zona, mentre il 20 aprile uno sciopero generale è stato indetto a Kef.

Mutano i luoghi delle rivolte, ma non le rivendicazioni. Lavoro, servizi, sviluppo per un’economia in cui il tasso di disoccupazione si attesta secondo l’Institut National de Statistiques (INS) intorno al 15%, superando il 30% quando si tratta di giovani laureati. La situazione è ovviamente assai più critica e difficoltosa per le regioni dell’interno, storicamente penalizzate rispetto alle grandi città della costa. Si tratta infatti di problemi tendenzialmente ignorati o messi a tacere durante gli anni della dittatura, che ora si ripropongono con vigore all’attenzione pubblica affinché la transizione politica che la Tunisia sta vivendo vada anche a beneficio delle tante e diverse periferie del Paese.

Pressoché in parallelo con il susseguirsi di manifestazioni e sit-in, tra il 7 e il 18 aprile ha avuto luogo una visita della delegazione del FMI finalizzata a valutare la performance del governo tunisino nell’applicazione di una serie di riforme condizionali all’erogazione della seconda tranche del prestito di 2,9 miliardi di dollari su 4 anni approvato nel maggio 2016.

Come il direttore della sede di Tunisi del FMI Björn Rother ha fatto notare, il tasso di crescita previsto per il 2017 è un incoraggiante 2,5%, stimato sulla base di un miglioramento del clima di fiducia verso il paese che dovrebbe stimolare gli investimenti esteri e privati. Il quadro macroeconomico globale rimane tuttavia preoccupante, con un aumento del debito pubblico oltre il 60% e il deficit di bilancio al 6%, oltre a un tasso di inflazione intorno al 4,6%. Rother ha puntualizzato che la performance tunisina nel 2016 non ha soddisfatto l’organizzazione e che il cammino da intraprendere per l’adozione delle riforme richieste rimane ancora lungo.

Il FMI chiede al governo tunisino il consolidamento dei conti pubblici e la creazione di un sistema bancario-finanziario più moderno, oltre a riforme legate alle misure di promozione degli investimenti, alla funzione pubblica e alla gestione delle imprese di Stato. Si tratta di condizioni pressoché standard per i prestiti di aiuto del FMI, molto simili a quelle richieste per il programma da 12 miliardi di dollari su tre anni per l’Egitto.

Anche nel caso della Tunisia è stata inoltre richiesta una “maggiore flessibilità” nella gestione del tasso di cambio, il che è conseguito in un deprezzamento del dinaro tunisino rispetto all’euro e al dollaro di oltre il 10% tra il 2015 e il 2016; negli ultimi giorni il dinaro ha raggiunto i minimi storici, toccando la soglia di 2,68 dinari per un euro. Secondo le teorie e le previsioni del FMI, tale deprezzamento dovrebbe stimolare esportazioni e turismo, oltre a rappresentare un ulteriore fattore di attrazione per gli investimenti esteri. La situazione sembra però al momento smentire queste stime: dato il profilo dell’export tunisino – peraltro da inserirsi in una congiuntura economica internazionale assai critica per il commercio –, l’effetto di prezzo non si è tradotto in un alcun significativo guadagno, mentre le importazioni – da cui l’economia è assai dipendente – sono diventate più costose, gravando sul potere d’acquisto della popolazione. Anche la conferenza “Tunisie 2020″, svoltasi il 29 e 30 novembre 2016 con l’obiettivo di attirare capitali per i programmi di investimento infrastrutturali del paese, benché salutata con grande favore, si è di fatto conclusa con risultati ben al di sotto delle aspettative: 14 miliardi di euro raccolti rispetto all’obiettivo iniziale di 25, nella quasi totalità provenienti da organizzazioni internazionali e donatori governativi, non da investitori privati.

Il governo Chahed persiste nel puntare tutto sugli investimenti internazionali, in continuità con gli esecutivi che l’hanno preceduto. Questa è una delle priorità dichiarate, funzionale a rendere possibile una ripresa che consenta di assorbire la manodopera che al momento rivendica lavoro e diritti. Tuttavia, la storia economica tunisina mostra che gli investimenti inseguiti non siano mai serviti da rimedio alle sofferenze sociali del paese, fungendo nel migliore dei casi da precario palliativo. Il caso della Coroplast sopracitato è a tale riguardo emblematico, perché racconta una storia di attività industriali o servizi con un modesto contenuto di valore aggiunto insediatesi in una particolare zona per il basso costo della manodopera e a seguito di incentivi fiscali; scorporate dal resto della filiera produttiva cui appartengono, possono essere trasferite con relativa facilità altrove quando gli incentivi si esauriscono e per ricollocarsi in zone logisticamente meglio servite. La mera creazione di impiego – che può venire meno una volta compiuta la de-localizzazione – raramente si è accompagnata a trasferimenti di conoscenza e tecnologie e allo sviluppo di attività complementari; i profitti difficilmente vengono reinvestiti o utilizzati per la riqualificazione infrastrutturale ed economica del territorio; l’assorbimento di lavoratori rimane comunque limitato rispetto all’offerta.

La Tunisia viene con ragione considerata come la storia di successo delle rivolte etichettate con il nome di Primavera araba. Eppure la sua economia fatica a trovare la via per un percorso di sviluppo che curi le ferite di decenni di dittatura, ferite che meritano doverosa attenzione da parte della politica nazionale e del mondo dello sviluppo internazionale. Mai come ora si rende necessaria una profonda riflessione su quali siano i motori della crescita economica e sulle specificità dell’economia tunisina, per delle strategie che vadano oltre la disciplina fiscale e l’attrazione degli investimenti, contribuendo a creare un patto sociale che sappia perseguire obiettivi di giustizia sociale intesi come priorità e non come questioni ancillari.

L’articolo originale è apparso il 26 aprile 2017 sul Ispionline