Intervista ad Habib Ayeb, autore del documentario “Couscous”- les graines de la dignité”

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Habib Ayeb è geografo, insegnante e ricercatore all’Università Parigi 8 in Francia,

attivista e realizzatore dei documentari “Fellahin” e “Gabes Labes”

Il suo nuovo lavoro “Couscous – les graines de la dignité” apparirà nei prossimi mesi in Tunisia.

Intervista a cura di Patrizia Mancini

Tunisia in Red: Cominciamo con la domanda più facile… Perché fare un documentario sul couscous?

Habib Ayeb: Il tema del film è la sovranità alimentare e, dato che in Tunisia si mangia soprattutto il couscous perché grano e orzo vi crescono facilmente, il titolo è venuto da sé. Il couscous, una volta lavorata la semola, è un piatto completo.  Anche se non si hanno verdure o carne da aggiungere, basta metterci un po’ d’olio di oliva o un po’ di latte o delle erbe selvatiche.

Se non si ha il grano, si può fare il couscous con l’orzo che cresce dappertutto, persino nelle regioni quasi desertiche. L’orzo è il cereale che garantisce innanzitutto la sicurezza alimentare, cioè la certezza di avere cibo a sufficienza e, in secondo luogo, la sovranità alimentare che significa essere sicuri che quello che mangiamo non dipende da condizioni poste da altri.

In questa scelta c’è anche un aspetto intimo, personale: io sono cresciuto in mezzo al couscous!

Tutto quello che avevamo era il couscous… poteva accadere di avere fame, si poteva sempre trovare un piatto di couscous che da noi, al Sud, era quello d’orzo. Se non ce n’era a casa, potevo andarlo a mangiare da qualcun altro. Simbolicamente il couscous è molto importante, da noi non si rifiuta mai un piatto di couscous. Non è nostalgia, ma certo sono anche ricordi.

Tunisia in Red: E ora cosa accade al couscous in Tunisia?

Habib Ayeb: Innanzitutto abbiamo talmente svalorizzato l’orzo che oramai siamo totalmente dipendenti dal grano. Già quando andavo a scuola sentivo dire che l’orzo era per gli animali e allora mi chiedevo se i miei genitori fossero degli animali!

E avevo talmente interiorizzato questo concetto che arrivai alla conclusione che di sicuro mamma e papà non erano degli animali, ma che non erano moderni. Mangiare il couscous di grano era la modernità! E, mano a mano che questa mentalità si è andata sviluppando, la superficie di terreno dedicata alla coltivazione dell’orzo è talmente diminuita che oramai il Sud, che non può produrre grano per la scarsità di pioggia, è totalmente dipendente dal Nord. La coltivazione dell’orzo che può crescere dappertutto perché ha poco bisogno di essere irrigato, è stato abbandonata. Inoltre, dato che la produzione di grano non basta per per il paese, dobbiamo importarne dall’estero. Il 55% del grano che consumiamo , sia duro che tenero, proviene dall’estero.

Tunisia in Red: c’è un filo rosso che lega gli altri tuoi documentari “Fellahin”(Contadini) e “Gabes Labes” (A Gabes va tutto bene) a “Couscous”?

Habib Ayeb: Certamente. Sono quelle persone che qui in Tunisia non sentiamo e che non vediamo mai, né alla televisione, né per strada o alle riunioni. Quando ce le fanno vedere è per fare del folklore, mai per fare loro domande. Queste persone sono i contadini, che producono il 50% del nostro fabbisogno alimentare e hanno un ruolo fondamentale nella conservazione e protezione delle risorse naturali e dell’ambiente. Sono sempre più spinti verso un percorso di marginalizzazione e di esclusione, più poveri,  dato che hanno sempre meno risorse a disposizione e le loro entrate continuano a diminuire. Questa popolazione nessuna la conosce. Il filo rosso dunque che unisce i miei documentari è la voce che vorrei dare loro. Naturalmente non posso dare la voce a tutti, dato che in Tunisia sono 500.000 famiglie, due milioni di persone circa. Vorrei però contribuire a restituire loro la parola e dare loro un volto, che li si veda e li si ascolti! Si può criticarli, dire qualunque cosa su di loro, ma che li si ascolti. Quando si parla di loro, li si definisce nel migliore dei casi i poveri, nel peggiore i selvaggi, gli ignoranti. E’ un discorso, quello sui contadini, che ho intenzione inoltre di continuare a sviluppare, chiarendo la relazione fra  classe contadina e ambiente, sovranità alimentare e protezione delle risorse.

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Fermo immagine dal film Coucous Crédit photo: Habib Ayeb

Tunisia in Red: e magari anche il ruolo delle donne nelle campagne?

Habib Ayeb: Certamente. Devo riconoscere che finora non ho trovato i mezzi per mettere meglio in risalto questo aspetto. Non è una scelta, è una constatazione. I miei film, compreso “Couscous”, non parlano a sufficienza delle donne. Bisognerà che prima o poi io dedichi un film interamente alle donne nelle campagne, alla suddivisione dei compiti con gli uomini.

Sono convinto che le donne lavorino moltissimo, forse più degli uomini. Ciò non è visibile nel mio film. Raramente si vedono delle donne perché coloro che possiedono terreni e li lavorano come capo-famiglia sono rare. Nelle campagne sono gli uomini che appaiono e quindi la videocamera cattura quelle immagini. Mano a mano che ci si avvicina alle case, allora si cominciano a vedere le donne. Ma la casa non è facilmente accessibile, specialmente a un uomo che riprende…è difficile, non dico impossibile. Sono le condizioni sociali che rendono più difficile avvicinarsi alle donne che agli uomini.

Tunisia in Red : ci dici che cosa è la ‘oula? 

Habib Ayeb: La ‘oula, che tuttavia non è specifica della Tunisia, racchiude in sé il concetto di immagazzinamento, di creazione di riserve per assicurarsi la sicurezza alimentare. Dalla stessa radice proviene la parola “famiglia”, ‘ila.

Queste riserve sono necessarie in un paese come il nostro in cui le piogge non sono regolari e neppure i redditi! Non è raro che ci siano alti e bassi nella situazione economica delle famiglie. L’idea è quella di accumulare una riserva che permetta di vivere per tutto un anno anche in situazioni difficili, anche se c’è una guerra, se si perde il lavoro o si verifica una catastrofe naturale. Oppure per far fronte all’arrivo improvviso di ospiti, per fornire derrate per la celebrazione di un matrimonio o di un funerale.

La ‘oula non di fa solo con la semola, si fa con diversi alimenti e con modalità varie.

Per esempio,al Sud non si può stendere la semola del couscous al sole per seccarla perché c’è troppa polvere e allora non si adotta la preparazione usuale, ma si fa una riserva di chicchi di grano o di orzo.

All’inizio dell’anno, sia che sia stato prodotto o acquistato, lo stock viene sistemato in un luogo determinato con metodi di conservazione che ora sono moderni (prodotti chimici), ma che in passato implicavano l’utilizzo di metodi naturali: la cenere o il peperoncino che tiene lontani gli insetti.

Al Sud si immagazzina l’olio di oliva, il peperoncino, il polpo e la carne seccati e anche i fichi. L’idea, il concetto di ‘oula è di conservare un prodotto grezzo o lavorato in condizioni di sicurezza per un anno.

Nel Nord del paese invece la ‘oula è la preparazione e lo stoccaggio della semola per il couscous da cuocere. Ed è un lavoro delle donne. In termini di conoscenza e di savoir faire alimentare le donne sono molto superiori agli uomini . Le donne sanno cosa bisogna piantare per ottenere un’insalata che abbia un buon gusto, gli uomini non conoscono le varietà, né del grano, dei pomodori o dei polli. Sono scelte che fanno le donne. Accanto alle case di campagna c’è sempre un piccolo riquadro di terra dove si coltivano delle verdure: e sono le donne a farlo. Selezionano i semi, li stoccano mettendoci quello che serve a proteggerli, seguono il ciclo completo: dalla scelta del seme fino alla conservazione di quanto si produce. Quindi se è solo parzialmente vero che la donna stia solo in casa, all’esterno ella si occupa in genere solo di quanto è destinato alla consumazione, mentre generalmente sono gli uomini che si occupano di quanto è destinato al mercato (alla vendita). In particolare dei cereali ed è per questo che nel film Couscous ci sono più donne che uomini perché sono loro che si occupano dei cereali e della parte finanziaria (crediti, acquisto di terreni..).

Dunque c’è un savoir faire delle donne che si estende fino alla casa…In Egitto, durante una ricerca, una donna mi fece notare un fatto di cui non mi ero reso conto, talmente era evidente: le donne hanno il compito non semplicemente di cucinare, ma di farlo bene, di fare della buona cucina. Il segreto è racchiuso nella parola “buona cucina”. A preparare un pasto qualunque sono capaci tutti: del pane secco con del latte e zucchero. Ma la donna, anche se ha degli ingredienti poveri, riesce ad arricchirli con creatività.

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Tunisia in Red: durante le riprese di “Couscous” che tipo di rapporto si è instaurato tra te e i contadini?

Habib Ayeb: Devo dire che per tutto il periodo delle riprese sono passato da una sorpresa all’altra. La cucina, il cibo fanno parte, in qualche modo, della sfera intima. Se vengo da te e vedo quello che mangi, è un po’ come se tu mi mostrassi qualcosa di te, quasi come se tu ti spogliassi davanti a me. Entro nella tua cucina e vedo se è sporca o pulita, capisco il tuo livello sociale, la tua povertà o ricchezza. La prima sorpresa perciò è stata proprio questa, di poter accedere facilmente alla cucina e filmare. Sono entrato in tutte le cucine, nessuno mi ha detto di no, né al sud o all’ovest, o al nord.

Poi, è stato sorprendente come le persone fossero capaci di dimenticarsi di me , della mia videocamera.

Mi facevo invitare, chiedevo che mi preparassero un coucous, ma non davo soldi in cambio. Non do mai dei soldi, a volte solo alla fine delle riprese. Nessuno si aspettava dei soldi del resto e se invece me li chiedevano, dicevo subito che non avrei dato niente. Quindi un’accoglienza gratuita, simpatica,ospitale e sorridente, molto piacevole. Le persone parlavano molto facilmente, sia uomini che donne. E’ incredibile la quantità di cose che ti raccontano: ho delle registrazioni che non utilizzerò mai perché rientrano nella sfera delle confidenze, specialmente quelle fatte dalle donne che, in ogni caso, sanno molto bene che non le utilizzerò. Anche per alcune immagini, come quella di una donna che facendo un certo movimento si scopre la testa o una parte del corpo, lei sa bene che non mostrerò quella scena, come fa non lo so! Dunque si è creato  una rapporto di confidenza che ha aiutato molto sia me che il cameraman. La stessa cosa accade con gli uomini: parlano, dicono tantissime cose e dimostrano una incredibile coscienza politica, la coscienza politica che ho trovato tra i contadini non l’ho trovata con la gente dell’Avenue Bourghiba (al centro della capitale, Tunisi, n.n.t.). Fanno analisi, si tengono informati, ascoltano la radio e guardano la televisione, c’è chi, quando va in città, si compra un giornale. La cosa principale di cui sono consapevoli è di essere degli “invisibilì”, del fatto che nessuno li guardi e ne soffrono. Ciò può spiegare la bella accoglienza che mi hanno fatto. Tutti, uomini, donne, bambini, cominciano con la stessa domanda: per chi faccio questo lavoro e perché, dove verrà proiettato il film, ma soprattutto chi sono. C’è stato chi me lo ha chiesto direttamente e chi per vie traverse, con un codice tutto loro.

Una volta rotto il ghiaccio, subentra una fiducia incondizionata, qualunque domanda tu faccia, hai sempre una risposta: la loro buona risposta che a volte non ha coinciso con quella che mi aspettavo. Mi è capitato di nominare la sovranità alimentare con alcune persone che credono di essere ben informate, dopo qualche minuto mi rendevo conto che la confondevano con la sicurezza alimentare. In campagna sono sempre in grado di comprendere la differenza e assimilano questo concetto alla dignità (il sottotitolo del documentario è del resto “i semi della dignità”). Qualcuno mi ha detto: “Se non riesco a nutrire mia moglie e i miei figli, mush rajel, non sono un uomo”.

E poi mi hanno fatto dei regali. Una donna è corsa verso la mia auto per darmi un sacchetto di plastica con un chilo di semola, fatta con le sue mani. Sapeva perfettamente che ero benestante, in ogni caso più di lei, ma voleva dirmi: “Questa è la mia semola che non potrai comprare da nessuna parte”. Un uomo di 96 anni mi ha giurato, e non ho nessun motivo per non credergli, che non aveva mai mangiato del pane comprato al forno. “Perché”?” “Perché non so  cosa cosa ci sia dentro.”. Non compra mai carne di pecora dal macellaio, a meno che non sia stata uccisa il giorno stesso e dopo averla controllata accuratamente. Con questo non voglio certamente dire che i contadini siano più intelligenti o furbi degli altri, in città certamente non puoi fare cose di questo genere. Vorrei mettere in evidenza soltanto questa capacità del nostro contadino a tener duro sulla sovranità alimentare: salvaguardare e scegliere liberamente.

Tunisia in Red: nel documentario, a un certo punto, si parla della Banca dei Geni. Ci puoi dire di che si tratta?

Habib Ayeb: Diciamo che già il fatto che esista una Banca dei Geni è in sé un fatto positivo.

In secondo luogo, io ho lavorato con Amine Slim, un ricercatore  che si occupa di cereali presso la Banca. La Banca esiste da diversi anni, da prima della rivoluzione, ma non è semplicemente un “museo” dove si raccolgono i vari tipi di semi e li si conservano dentro delle scatole. In questo caso non mi avrebbe interessato, se non per la curiosità, ad esempio, di vedere com’è fatto un seme di segale. Si raccolgono tutti i tipi di semi delle piante che crescono in Tunisia. Ma la cosa più importante è la preoccupazione riguardo al fatto che queste sementi possano scomparire. Nell’eventualità della sparizione ipotetica del grano, allora le sementi conservate possono servire per essere seminate di nuovo, ma è anche importante perché la Banca reintroduce  le varietà locali che sono più resistenti alle malattie e alla siccità. Ha sviluppato questa idea senza arrivare a parlare di sovranità alimentare, ma attuandola nella pratica tramite la scelta di far riprodurre e proteggere le sementi autoctone ai contadini stessi, non ai produttori.

Il suolo è il miglior luogo per preservare il seme: si decide, per esempio, di produrre una certa quantità di grano di un certo tipo e si concorda insieme a loro, eventualmente aiutandoli. In questa maniera si assicura la sicurezza alimentare, si protegge il patrimonio genetico delle varietà autoctone e si raggiunge un livello di sovranità alimentare che può rivelarsi molto importante in situazioni di crisi: un embargo, una crisi economica molto grave, o una guerra.

E’ una istituzione pubblica che fa un lavoro fondamentale e ha introdotto un numero importante di varietà che erano scomparse. Non vende i semi, ma li consegna gratuitamente: un sacco di semi al contadino che restituirà alla Banca la stessa quantità. Credo che non ci sia neppure un accordo scritto, è piuttosto un accordo morale.

E gli altri contadini, che vivono nei dintorni e osservano, cominciano a vedere i buoni frutti di questo tipo di attività. Se hanno avuto un attacco di parassiti al loro grano e vedono che quello dell’altro invece ha resistito, si informano e alla fine ne chiedono un campione al vicino che può regalarglielo o venderlo, oppure gli consiglia di andare alla Banca dei Geni. Quindi è una cosa che funziona molto bene. Però, a mio avviso, il numero di contadini coinvolti non è ancora sufficiente. In ogni caso, la buona notizia è che le varietà antiche, quelle locali sono riapparse. Ce n’è stata una per la quale avevano trovato 200 grammi di semi e la Banca li ha fatti riprodurre nei suoi lotti di terra.

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Fermo immagine dal film “Couscous” Crédit photo: Habib Ayeb

Tunisia in Red: Cosa vorresti aggiungere per concludere?

Habib Ayeb: io ritengo fondamentale il principio della sovranità alimentare e non utilizzo affatto il termine “sovranità” in senso nazionalista. Il mio documentario cerca di volgarizzare questo concetto al di fuori dei discorsi accademici, di spiegarlo, e infatti i contadini sanno bene di cosa parlano quando parlano di sovranità alimentare. Non è normale che un paese come la Tunisia importi il 55% del suo fabbisogno di cereali, ma sappiamo perché: i politici hanno scelto di far produrre per l’esportazione e di importare la semola. La Tunisia si è praticamente prostituita, come definire altrimenti un paese che si è ridotto a dipendere per oltre il 50% dall’estero per la sua nutrizione di base? Del resto, non è l’unico paese che si trova in questa situazione, decine di altri paesi sono nella stessa condizione. Ti faccio alcuni esempi: l’Iraq era un paese che aveva tutte le risorse per nutrire a sufficienza la sua popolazione. Sotto Saddam Hussein fu fatta la scelta di esportare petrolio e di importare riso e grano. Poi ci fu l’embargo e da quel momento non ci furono abbastanza risorse neppure per nutrire l’esercito. Secondo le cifre date dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in Iraq sono morte circa 1 milione di persone, direttamente a causa della mancanza di generi alimentari causata dall’embargo. Un orrore assoluto.

Al di là di ogni giudizio politico, chiediamoci perché lo Stato siriano, invece, dal 2011 ancora resiste? Perché ha sempre avuto un livello abbastanza elevato di indipendenza alimentare, perché il grano è una produzione strategica per i siriani. Certo, probabilmente senza l’intervento russo non potrebbero andare avanti, ma in ogni caso è evidente la differenza con l’Iraq. Soltanto ora si cominciano ad avere problemi di carestia in Siria, ma non nelle zone controllate dal regime. Del resto durante la crisi alimentare del 2007/2008 i siriani non se ne erano neppure accorti.

Nel mio documentario non affronto questo aspetto globale del problema, ma sono i contadini stessi che, con parole loro, lo esprimono: “Lo straniero, l’occidente vuole uccidere la nostra agricoltura”.

Qualche giorno fa cercavo di spiegare in tutti i modi a un giornalista perché era negativo il fatto di dover importare, ma non riusciva a capire. Allora gli ho detto: “ Immagina che tu dipenda solo da me per nutrirti. Io potrei chiederti qualunque cosa e tu non potresti rifiutare perché se tu lo facessi, io potrei chiuderti la porta in faccia. Quando starai per morire di fame, allora sarai costretto a bussare…e a dirmi : ”Tieni, prendi tutto quello che vuoi, basta che mi fai mangiare”. E lui mi ha guardato e mi ha detto: “E’ vero, ho capito”.

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini