Intervista a Olfa Lamloum e Michel Tabet sul documentario “Voices from Kasserine”

 

a cura di Patrizia Mancini

Il film “Voices from Kasserine” è stato realizzato da Olfa Lamloum et Michel Tabet con Talal Khoury alla videocamera.

Patrizia Mancini: Perché avete scelto la regione di Kasserine per il vostro documentario?

Olfa Lamloum : Abbiamo scelto questa regione perché International Alert lavora sin dal 2012 in tutto il governatorato. Vi abbiamo condotto numerose ricerche sociologiche, sia quantitative che qualitative, in particolare su “Giovani e economia del contrabbando” , sulla Rappresentazione da parte della popolazione della questione della sicurezza in senso lato e sulla Governance dell’acqua nella regione di Kasserine.

Il nostro intervento si è articolato sia sul piano della ricerca che su quello progettuale, quest’ultimo centrato sulla promozione della governance democratica, locale e partecipativa. Quindi, dati i legami di partneriato e le conoscenze che vi abbiamo stabilito negli anni, se vogliamo questa regione si è un po’ imposta da sola, come spazio ottimale per affrontare la questione della marginalizzazione.

Michel Tabet: non ho molto da aggiungere al fatto che la scelta di Kasserine si sia “imposta” per il lavoro di Olfa e l’insediamento di International Alert nel territorio…comunque, alla base c’era l’idea di lavorare su temi legati alla Tunisia post-Ben Alì, di conseguenza sulla marginalizzazione. Riflettendo con Olfa sulla forma che avrebbe avuto questo lavoro e poi sui contenuti, ci siamo trovati con molta naturalezza a scegliere Kasserine . Del resto, il mio profilo è quello di qualcuno che fa un lavoro di antropologia visuale, quindi tutto il mio approccio riguarda la messa in opera di dispositivi filmici e audiovisuali come strumenti d’inchiesta sul terreno, di produzione di conoscenza, di diffusione e condivisione di saperi. E’ anche questo che abbiamo voluto sperimentare.

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PM: Che tipo di legame avete stabilito con le persone del posto con le quali avete lavorato?

MT: Penso che ci siano due tipi di risposte, o meglio due aspetti da esaminare nella stessa risposta.

Innanzitutto il problema dell‘inserimento nella realtà locale. Ci sono diverse modalità per attuarlo: c’è il reportage selvaggio che non è evidentemente il nostro caso, e poi c’è il dare la parola alle persone, come dice il titolo “Voices from Kasserine, con la possibilità di riflettere insieme ed è qualcosa che ha a che fare con la discussione e la fiducia. Il lavoro che International Alert ha fatto dal 2012 ha preparato il terreno e ha facilitato l’inserimento della telecamera. Però, quando poi arriva la telecamera, ci si trova di fronte a un tipo nuovo di relazione, ben preciso, che si svolge nell’ambito delle riprese. Le persone sanno quello che fanno perché sono un abituate a vedere cose simili alla televisione, ma nel nostro caso, per il tipo specifico di attività, si mette in moto una transazione, perché per loro significa darci un po’ del loro tempo, una giornata, una mattinata. Può capitare che si sentano in trappola, ma sta a noi conquistarli. E’ un po’ un gioco in cui ci si sente vicini e complici. Vi sono momenti delle riprese in cui si va al di là del messaggo che si vuole far passare e lo scambio acquista un’aspetto più umano e anche simpatico.

OL: Sono d’accordo con quanto ha detto Michel, vorrei soltanto aggiungere che vi è stato un altro momento importante, quello del sopralluogo . Siamo partiti insieme al fotografo libanese Talal Khoury e abbiamo esplorato tutti i luoghi in cui avremmo girato, discutendo con le persone e cercando di immaginare il futuro casting del documentario, le sequenze, le questioni da affrontare. Questo primo sopralluogo ci ha permesso di rientrare a Tunisi con moltissime idee e con l’elaborazione di contenuti meglio strutturati. Su questa base abbiamo costruito il progetto. Io non ero abituata a fare dei film e quello che ho trovato straordinario è che abbiamo seguito esattamente quello che avevamo immaginato nel nostro schema in power point!

Le prime immagini del film, ad esempio, sono girate nel primo posto dove siamo arrivati.

Il sopralluogo è stato fondamentale per spiegare il progetto e per avvicinarci alla gente e farci conoscere, creando dei legami di fiducia.

Fra le cose interessanti da segnalare: avremmo voluto affrontare la tematica della radicalizzazione e del salafismo e avevamo identificato dei soggetti con i quali avremmo potuto filmare, ma alla fine non si sono presentati. Penso che abbiano avuto paura di rappresaglie.

In questo film non tutto è stato facile: abbiamo anche intervistato un bambino e penso che quello sia stato per tutti noi il momento più sconvolgente del nostro lavoro. Ci siamo trovati tutti e tre da soli con lui, dopo che io lo avevo incontrato per spiegargli il progetto. Subito è apparso chiaro come fosse molto difficile per lui esprimersi e a un certo momento ci siamo fermati, gli abbiamo spiegato nuovamente tutto e gli abbiamo chiesto se avesse veramente ancora voglia di continuare, perché ci era venuto il dubbio che stessimo praticando della violenza su di lui, facendogli pressione. E dopo abbiamo ancora discusso moltissimo fra di noi, arrivando persino a prendere in considerazione la cancellazione dell’intervista. Alla fine l’abbiamo inserita, lasciamo agli spettatori il compito di giudicare.

Ciò dimostra che per quanto si possa essere preparati, ci si può trovare di fronte a situazioni delicate.

Michel e Talal avevano più esperienza, mentre io a un certo punto mi sono sentita completamente disarmata di fronte a questo bambino che aveva la stessa età del mio, avevo le lacrime agli occhi e sentivo che era veramente troppo ingiusto quello stava vivendo.

PM: Una domanda diretta a Olfa Lamloum: C’è un filo conduttore che lega la vostra ricerca del 2015 “Les jeunes de Douar Hicher et d’Ettadhamen – Une enquête sociologique a questo documentario?

OL: Ce ne sono diversi. In entrambi i lavori vi è la volontà di raccogliere le rappresentazioni della gente, di non arrivare sul terreno con una idea prestabilita di quello che le persone pensano e delle risposte che danno, bensì disporsi all’ascolto e restituire fedelmente la loro parola, senza a priori ideologici o stigmatizzazione, senza metterci nella posizione di chi vuole dare lezioni, quindi cercare di fare veramente delle ricerca, di capire. Inoltre, non operare esclusioni di sorta, non scegliere le persone in funzione della simpatia che proviamo per alcuni di loro, ma restituire qualcosa che sia il più rappresentativo possibile della realtà. Un altro filo conduttore è la questione della marginalizzazione, o, se vogliamo, della relegazione.

Nel caso della ricerca si trattava di due zone della periferia urbana della Grand Tunis, Douar Hicher e Ettadhamen, mentre nel documentario si parla di Kasserine, feudo della rivoluzione, che ha avuto il più gran numero di martiri. Abbiamo voluto capire, a distanza di anni dalla rivoluzione, che cosa fosse successo, attraverso la declinazione e la de-costruzione della marginalizzazione in luoghi e spazi sociali diversi fra loro: quelli dei figli dei contadini, dei bambini, delle scuole, per comprendere, nello stesso tempo, come questa marginalizzazione si presenti, come prenda forma, perché è lì, perché e come si riproduca il sentimento di queste persone di aver subito una espropriazione. Questo documentario esplicita esattamente la questione dell’espropriazione della storia, della memoria collettiva, della terra, dell’acqua, dei diritti, del capitale sociale e anche l’espropriazione della frontiera. Di fatto un tempo non esisteva la frontiera con l’Algeria, perciò ora essa viene vissuta come illegittima, gli abitanti della regione si sentono espropriati anche di questa possibilità di scambio, di questa attività, di questo plusvalore che esisteva quando il confine non c’era .Infine, un altro tema che unisce la ricerca e il documentario riguarda quella che viene chiamata la transizione democratica tunisina vista dal margine: la rivendicazione di diritti detta e raccontata dalla gente.

MT: la tematica di cui ha parlato Olfa mi fa pensare a qualcosa che, almeno per me, è importante, cioé la ragione per cui faccio questo tipo di film. Mi sembra che alla fine , a parte la dimensione di ricerca, il film (e allo stesso modo concepisco il montaggio e il modo di prendere la parola) diventi lo spazio della democrazia. Nel film, infatti, c’è eguaglianza nel discorso, eguaglianza fra il realizzatore e la persona intervistata, vi è scambio e cooperazione. E’ uno spazio in cui noi, tendendo il microfono e portando la telecamera , creiamo un’utopia democratica, nel momento in cui la democrazia sembra sparire dai suoi luoghi tradizionali. Il film diventa il luogo di un discorso fra eguali , in cui ciascuno parla su un piano di parità, dove ogni opinione è legittima. Il documentario, quindi, non solo mi aiuta a comprendere, ma è uno spazio socratico, in cui tutti discutono, un’agorà. 

PM : una domanda a Michel: è’ stata la tua prima esperienza di riprese in Tunisia?

MT: No, avevo già girato nel quadro di un progetto europeo sulle questioni legate alla società civile: è stato molto interessante, mi ha permesso di scoprire la Tunisia, al di là della “cartolina postale”. Sono stato a Gafsa, a Tatatouine,a Tozeur. I miei interlocutori però erano attivisti coinvolti in alcuni programmi specifici, mentre questa esperienza a Kasserine mi ha permesso di incontrare diversi tipi di persone, anche non impegnate in attività militanti. Un’altra scoperta è stata quella di confrontarmi con quello che la gente pensa a proposito della democrazia. Se nella prima esperienza in Tunisia avevo a che fare più con concetti teorici, a Kasserine mi sono trovato di fronte alla fragilità della democrazia, commuovendomi di fronte alla potenza democratica di queste persone che parlano e agiscono, alle loro aspettative deluse, mentre ci sarebbero tante potenzialità . All’estero sentiamo parlare dei pericolo per la democratizzazione tunisina che verrebbe dal salafismo o dal jihadismo. E poi in effetti ci si rende conto che il vero pericolo è il fatto di non risolvere i problemi interni del paese.

PM: So che durante il vostro lavoro avete avuto dei problemi con la polizia. Volete raccontarmi come è andata?

OL. Ci hanno fermati a novembre 2016, durante il nostro sopralluogo. Eravamo andati a incontrare le persone che erano in sit-in a Sbeitla da più di un anno ( a una trentina di chilometri dalla città di Kasserine n.d.t) per conoscerli e esaminare le possibilità di filmare. Per noi era importante filmare anche situazioni di lotta e di resistenza e in questo senso il sit-in di Sbeitla ci appariva come una delle realtà più importanti, guidato da donne molto impegnate. Eravamo andati a prendere un caffé con alcune di loro per discutere e comprendere il contesto e le loro motivazioni. Poi abbiamo pagato la consumazione, pronti ad andarcene. Era il nostro ultimo giorno di sopralluogo e saremmo dovuti rientrare a Tunisi. Al primo posto di blocco all’uscita della cittadina ci ha fermato la Guardia Nazionale (l’equivalente dei nostri carabinieri, n.d.t.). Dopo il controllo dei documenti (credo che i nostri nomi fossero su una lista), sono arrivate delle persone in automobile che ci hanno ordinato di seguirle alla sede della Guardia Nazionale di Sbeitla. Poi ci hanno preso i passaporti e hanno allertato la sede centrale della Guardia Nazionale a Kasserine, avvertendoci che avremmo dovuto attendere l’arrivo di un commissario che ci avrebbe interrogati. Abbiamo dovuto aspettare parecchio tempo, ma nel frattempo i nostri amici dell’UDC (Unione dei laureati disoccupati) di Sbeitla e anche i partecipanti al sit-in, si sono mobilitati all’esterno del commissariato, esigendo la nostra liberazione. E’ stato uno slancio di solidarietà che ci ha molto commosso. All’interno del commissariato le domande ruotavano intorno al fatto che avessimo dato del denaro ai partecipanti al sit-in, “una organizzazione straniera che pagava dei manifestanti”! Allora abbiamo spiegato cosa fosse “International Alert”, che avevamo già l’abitudine di lavorare nella zona, che tutti sapevano che eravamo sul posto e che non era, almeno per me, la prima visita. Continuammo a spiegare che “International Alert” aveva delle attività in loco e degli uffici con una coordinatrice e che tutto era fatto nella legalità e nella trasparenza. A un certo punto è arrivato l’ordine da Kasserine di liberarci. Possiamo dire che siamo stati liberati grazie alla pressione della società civile e anche per l’intervento del Forum Tunisien pour les droits èconomiques et sociaux e della Lega per i diritti umani. E’ intervenuto anche il capo distretto della Guardia Nazionale di Kasserine che già conosceva le nostre attività, Sicuramente questo episodio ha rinforzato i nostri legami con gli attivisti di Sbeitla.

PM: come è stato accolto il documentario a Tunisi e poi a Kasserine?

OL: innanzittutto parlerei della scoperta del film da parte dei nostri amici di Kasserine che sono venuti ad assistere alla proiezione a Tunisi. Non l’avevano visto prima e la loro reazione mi ha molto colpita. Si sono riconosciuti nella restituzione che abbiamo dato delle loro loro storie, in particolare i giovani di Thala…..e ciò dimostra che fra noi e loro il patto era stato rispettato, che non avevamo tradito le loro aspettative. Ci hanno baciato e abbracciato e questo sicuramente ci ripaga tantissimo. A Kasserine ci sono due cose che mi hanno commossa: la presenza di un bambino che aveva visto il manifesto del documentario su un muro a Kasserine, si è riconosciuto nell’immagine riprodotta ed è venuto tutto solo a vedersi il film.

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Foto di Patrizia Mancini

L’altra è stata la reazione dei giovani durante il dibattito sul ruolo dello stato che si è svolto dopo la proiezione: l’ho trovato stimolante e d’impatto, il livello degli interventi è stato molto elevato e sofisticato. E’ veramente impressionante vedere come giovani poco più che ventenni siano così politicizzati e come padroneggino argomenti che solo apparentemente potrebbero sembrare estranei alle loro preoccupazioni. Del resto, ormai in Tunisia giovani così li incontri dappertutto. La politicizzazione di questa nuova generazione è una conquista delle rivoluzione.

MT: La reazione affettuosa a Tunisi ha anche dimostrato che non ci eravamo appropriati delle loro immagini e delle loro parole, ma che le avevamo restituite al pubblico senza distorsioni o interpretazioni.

Importante è stato anche l’incontro, al cinema Mad’Art di Cartagine, tra le persone venute da Kasserine e quelle di Tunisi, la maggior parte delle quali non era mai stata in quella zona. Questo incontro, insieme alla visione del documentario, ha provocato in sala un’emozione palpabile. Ho anche osservato una delle persone che ha partecipato al documentario e che era presente in sala: faceva cenni di assenso a ogni passaggio che per me era stato importante nel montaggio, un’ulteriore conferma, se vogliamo, della sincronia e dell’empatia che si era creata con le persone di Kasserine.

Per quanto riguarda la proiezione a Kasserine la penso come Olfa. Anche se non posso fare un paragone con la Tunisia pre-rivoluzionaria, sono rimasto colpito dalle competenze dei ragazzi sia nei discorsi più tecnici, come la regolazione dell’immagine o le inquadrature, sia per quanto riguarda argomenti come quello della democrazia partecipativa.

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Olfa Lamloum e Michel Tabet (a destra) incontrano alcuni giovani di Kasserine. Foto di Patrizia Mancini

PM: Secondo voi, a cosa può servire un documentario come il vostro?

OL: Se rispondo come International Alert, posso dire che serve a due cose: è un film che sintetizza in qualche modo il nostro approccio, offrendo una diagnostica “citoyenne” dei problemi sociali, economici e anche securitari dal punto di vista delle popolazioni. Inoltre, apre e promuove spazi di discussione e diviene in questo modo, anche per International Alert, uno strumento per dibattere su questa diagnostica. Su un piano più generale, al di là del nostro lavoro come organizzazione, il documentario rimane uno strumento utile a trasmettere le narrazioni, i discorsi delle persone e a mostrare le falle di quella che si definisce la transizione democratica. La democrazia non è solo quella che vediamo al centro del sistema o nelle istituzioni. Essa dovrebbe essere anche il conseguimento di diritti economici e sociali, della democrazia locale con strategie per uno sviluppo inclusivo. Questo documentario mostra come tutto ciò sia lontano dall’essere una preoccupazione per quelli che decidono. C’è una frase di Sepulveda nel suo libro “La follia di Pinochet” che mi ha colpito “Raccontare è resistere”. Direi che il nostro documentario è stato fatto per testimoniare la resistenza delle persone, lasciandole parlare di sé.

MT: Ma Il film serve anche a me! La videocamera è uno strumento d’incontri, a volte simpatici, a volte meno, ma che diventano sempre degli scambi. Poi, come cittadino europeo e mediterraneo, dato che ho la doppia nazionalità libanese e francese, ho voglia di riflettere sulla tranquillizzazione del Mediterraneo. Indagare in quei luoghi dove le cose non sono andate bene, sul perché non sono andate bene e cosa si potrebbe fare perché vadano meglio. E poi può darsi pure che non servirà a niente, deve servire per forza a qualche cosa? (ride) . Il fatto che io sono nato a Beirut, vivo a Parigi e sono venuto a Kasserine, è qui l’utilità del film, non è qualcosa che si possa misurare…é il ragazzino che è venuto perché si è riconosciuto nel manifesto, sei tu che sei italiana e vivi in Tunisia e sei venuta con noi a incontrare la gente di Kasserine…

Trailer del documentario e altro ancora sulla pagina Facebook dell”evento

https://www.facebook.com/VoicesfromKasserine/

Traduzione e adattamento dal francese dell’intervista : Patrizia Mancini