Trump a Gerusalemme: una dichiarazione di guerra

El presidente de EE.UU Donald Trump con su homólogo israelí, Benjamín Netanyahu, en el Museo de Israel en Jerusalén. / U.S. Embassy Tel Aviv (Flickr)

El presidente de EE.UU Donald Trump con su homólogo israelí, Benjamín Netanyahu, en el Museo de Israel en Jerusalén. / U.S. Embassy Tel Aviv (Flickr)

Santiago Alba Rico

Sull’incendiaria dichiarazione di Donald Trump, che riconosce Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, mi vengono in mente tre rapide riflessioni.

La prima riguarda l’irrilevanza – e l’inutilità storica – degli appelli alla giustizia. Non c’è probabilmente nessun’altra causa al mondo come la Palestina capace d’ottenere un appoggio così maggioritario su scala planetaria. Non solo nel mondo arabo e musulmano, che si divide sulla Siria o sul Bahrein, e persino sullo sfortunato e azzittito popolo sahrawi, ma mai sulla Palestina; non solo nelle regioni che subirono il colonialismo e patiscono ora i rigori dell’economia globale capitalista; anche i popoli europei provano in genere simpatia per i palestinesi e orrore per gli abusi dell’occupazione israeliana. E’ una simpatia trasversale, non ideologica, che in Spagna più che in ogni altro paese d’Europa, è condivisa dalla stragrande maggioranza delle persone. Aldilà delle diverse ragioni specifiche – religiose, nazionaliste, culturali o altro – questa quasi unanimità fa però luce sulla disparità in quello che impropriamente viene chiamato “conflitto” e sul suo vizio d’origine, mostrando così la naturale inclinazione degli esseri umani a prendere la parte del più debole. Il racconto biblico di Davide e Golia è per eccellenza la struttura narrativa di questo naturale “allinearsi con il bene” degli umani “normali”. Il rapporto di forze tra Israele e Palestina è così diseguale, il disprezzo israeliano per la vita dei palestinesi – la sua arroganza da Golia – è così offensivo che la durata di tutto questo, il fatto cioè che non si sia ancora messo fine all’ingiustizia, appare a tutti come un’incoerenza narrativa.

In realtà è questa l’eccezionalità del “caso” Palestina. Non è certo il popolo che più ha sofferto nella storia e nemmeno quello che ha sofferto per più tempo. Ciò che forse non ha precedenti è la generale simpatia che suscita nei popoli del mondo e il fatto scandaloso che questa simpatia è direttamente proporzionale all’indifferenza e ostilità della maggior parte dei governi, inclusi i governi arabi e musulmani che dicono difenderne la causa. C’è un consenso popolare che chiede giustizia per la Palestina e un accordo interstatale che gliela nega, una discordanza palesemente ignobile in un ordine mondiale che pretende fondarsi sulla carta della Nazioni Unite e sul Diritto internazionale. Nessuna violazione storica ha fatto tanto danno all’Onu e alla sua credibilità come l’occupazione israeliana della Palestina; nessuno ha contribuito tanto per spegnere la speranza democratica dei popoli che lottano contro dittature o invasioni straniere. Nella sua piccolezza eroica e paziente, la Palestina incarna una dolorosa potenza simbolica: rivela il fallimento strepitoso, sempre attuale, dell’ordine giuridico internazionale e la potenziale debolezza di tutti i popoli del pianeta.

La decisione di Trump, dopo mesi di silenziosa erosione in cui “i palestinesi” sembravano vivere in altri paesi, ci ricorda l’esistenza della Palestina come dolore universale e come asse di un accordo interstatale contro la giustizia. Quest’accordo interstatale a favore d’Israele, senza il quale il presidente americano non avrebbe potuto fare la sua dichiarazione, capeggiato dagli Stati Uniti dal 1967, ma favorito dall’Europa da molto prima, perlomeno dal 1916 come promotrice storica del sionismo e delle sue conseguenze: un ordine coloniale ancora vigente in cui Israele è il gemello conflittuale dei regimi che l’Occidente ha aiutato a nascere o ha protetto nella regione: l’Arabia Saudita dall’inizio o l’Egitto dal 1973 – pedine centrali – sono altrettanto israeliani come altrettanto “palestinesi” sono le vittime dei loro abusi. Lo stesso può dirsi di tutte quelle dittature – dalla Siria al Bahrein – che hanno continuato a trattare i propri cittadini come Israele tratta i palestinesi, se non peggio, mentre, di fatto, hanno abbandonato la Palestina al suo destino. La Lega Araba è stata ed è ancora, dopo la sconfitta della vampata rivoluzionaria del 2011, la succursale coloniale di quest’accordo interstatale contro tutti i “palestinesi” – palestinesi o meno – della regione.

La seconda riflessione riguarda le variabili storiche di quest’accordo contro la giustizia. Se è giusto ricordare che gli Stati Uniti sono diventati il principale alleato d’Israele solo “tardi”, non bisogna nemmeno dimenticare – al contrario di ciò che pretende un certo anti-imperialismo sommario – che chi governa a Washington può fare la differenza. L’attuale posizione americana in Medio Oriente non è la stessa di vent’anni fa così come Obama e Trump non sono la stessa cosa. La dichiarazione su Gerusalemme del presidente “twitter” è un ribaltamento drastico della politica di Obama, che aveva capito con realismo tragico, e accelerò, la decadenza imperiale degli Stati Uniti, soprattutto in Medio Oriente, e tentò di ridurre i danni con una combinazione di omissioni e concessioni: è in questo quadro che si inseriscono i negoziati nucleari con l’Iran e il conseguente allontanamento dall’Arabia Saudita e da Israele, che avevano accusato il colpo.

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele non è l’atto di un pazzo. Oltre a dover ammettere che Trump è, purtroppo, l’unico governante a mantenere le sue promesse elettorali, bisogna riconoscere che questo gesto è coerente con la volontà di ristabilire, in un contesto inadeguato, la politica americana neocon dell’epoca Bush. L’intensità dell’intento è data dalla personalità di Trump, la tragedia aggiuntiva al contesto. Dopo le rivoluzioni sconfitte del 2011, con diverse guerre civili in atto (Libia, Siria, Yemen), e uno scenario geopolitico volatile dominato dall’Iran e dalla Russia, gli Stati Uniti cercano di tornare a un Medio Oriente egemonizzato da Israele e dall’Arabia Saudita; alimentando, cioè, occupazioni, invasioni, guerre e conflitti che non riusciranno a controllare e le cui vittime saranno, come sempre, perlopiù “palestinesi” plebei (compresi alcuni plebei americani o europei che soffriranno le conseguenze di un terrorismo riattivato). Obama è stato una maledizione per la Siria perché l’ha consegnata, insieme all’Iraq, nelle mani dei russi e degli iraniani; Trump è una maledizione non solo per i siriani, ma per tutta la regione e per il mondo intero, compresi gli Stati Uniti.

La terza riflessione riguarda la “linea rossa” che Trump sembra aver superato. Alcuni osservano che Gerusalemme, di fatto, era già la capitale d’Israele, che sul terreno non cambia nulla e che la dichiarazione ha solo un valore simbolico. Tutto questo è vero, a patto però di considerare cosa vuol dire “simbolico” in questo caso (e in tutti i casi: riusciamo ad immaginarci cosa avrebbe significato un riconoscimento americano della Repubblica catalana?) Non dimentichiamo che i palestinesi, privati del loro territorio dall’occupazione e colonizzazione israeliana (come preferisce chiamarla Ilan Pappé), possono solo combattere sul terreno del simbolico. E non mi riferisco ai simboli religiosi, fragile nitroglicerina che Trump e Netanyahu vogliono far esplodere, ma ai nomi stessi delle cose; alla “forma”; alle leggi internazionali come ultima patria cui appellarsi.

E’ un elemento molto importante. Il problema non è tanto l’illegalità di Gerusalemme come capitale. Tutto è illegale in Palestina da 70 anni. E’ illegale l’occupazione del territorio non incluso nell’ingiusta ripartizione originaria; sono illegali le colonie; è illegale il muro; è illegale la chiusura di Gaza; è illegale il divieto al rientro dei rifugiati. Tutta questa illegalità è stata tacitamente consentita, se non addirittura promossa, da quest’alleanza interstatale guidata dagli Stati Uniti dal 1967. Sappiamo tutti, d’altra parte, che non c’era nessun “processo di pace” in corso degno di questo nome, e che la soluzione dei due Stati era lettera morta da Oslo. Dicevamo prima che la potenza “simbolica” della Palestina risiede nella sua capacità di mostrare il fallimento, sempre attuale, dell’ordine giuridico internazionale sorto dopo la seconda guerra mondiale, teoricamente pacifico, democratico e fondato sul diritto. Trump, assumendo pubblicamente – formalmente, simbolicamente – l’illegalità che finora gli Stati Uniti si erano limitati ad acconsentire, assume questo fallimento come un fatto, dichiara in Palestina la fine materiale di quest’ordine e afferma l’istituzione di uno “stato di natura” o di “guerra” in cui lo Stato d’Israele si erge come unico Stato possibile, presente, passato e futuro, in terra di Palestina. Tutti i suoi predecessori sapevano perfettamente cosa c’era in gioco e hanno evitato di compiere il passo; e non è un’esagerazione prevedere una nuova Nakba per i palestinesi. Trump ha rubato ai palestinesi la loro ultima terra: il nome di Al-Quds, la legalità evocata e sempre trasgredita. Trump ha distrutto il nome stesso della pace e ne pagheremo tutti le conseguenze.

Un giornale satirico francese scriveva: “Trump appoggia la soluzione dei due Stati: uno ebraico e uno americano.” Purtroppo la regione pullula di Stati: Stati crollati, Stati sul punto di crollare, Stati vincenti e arroganti, Stati armati fino ai denti da Europa e Stati Uniti. Non so se riusciamo a valutare gli effetti che può avere una Palestina al centro dell’attenzione in un contesto come quello attuale. Dicevo prima che quasi tutti appoggiano o simpatizzano con la Palestina. Ciò significa che in Medio Oriente persone molto diverse, con progetti differenti, sono tutti contro Israele e la sua impresa coloniale in pieno secolo XXI. Gli jihadisti hanno ragione in Palestina, Hamas ha ragione in Palestina, i nazionalisti arabi hanno ragione in Palestina, Iran e Hezbollah – occupanti della Siria e assassini di “palestinesi” siriani – hanno ragione in Palestina; come ha ragione tutta la gente normale che chiede un po’ di giustizia sociale e di democrazia in Palestina e in tutta la regione. Nell’attuale vespaio regionale, il fatto che una Palestina senza speranze torni a essere il campo di battaglia dove si combattono tra loro assassini che hanno ragione e assassini che hanno torto, significa la fine definitiva delle aspirazioni di pace, di democrazia reale e di giustizia sociale che si erano manifestate nel 2011. Questo è il vero accordo interstatale che Israele e Arabia Saudita hanno firmato con i loro nemici, mentre continuano a far loro la guerra.

Chi vince? Unicamente Israele, che si preoccupa del lungo termine e, nell’immediato, le altre “dittature arabe”, comprese la russa e l’iraniana, entrambe coinvolte nella geopolitica del disastro.

Chi perde? Sicuramente i palestinesi, nuovamente esposti ai proiettili e ai bombardamenti israeliani e lontani come non mai dal loro sogno di liberazione, ma anche – perché la Palestina è il simbolo e la matrice di ogni ordine, esistente o futuro – la possibilità di un nuovo accordo interstatale fondato nel rispetto dei Diritti Umani e quindi nella completa decolonizzazione del Medio Oriente. Non serve a nulla dirlo, se non il fatto che anche le parole sono reali: l’Europa, che è la responsabile originaria del disastro e che pagherà caro le conseguenze, non farà nulla in questa direzione.

L’articolo originale è apparso il 10 dicembre 2017 sul sito cuartopoder.es

Traduzione e adattamento dallo spagnolo a cura di Mario Sei