In viaggio con le famiglie dei migranti dispersi e morti nel Mediterraneo. Alcune riflessioni sulle possibilità d’azione

 carovane

Federica Sossi

Da molti anni, ormai, e in vari modi, stiamo seguendo e sostenendo la lotta delle famiglie dei migranti tunisini dispersi e quest’anno siamo venuti come CarovaneMigranti e singole/i attiviste/i in Tunisia per poterlo fare ancora, incontrando le famiglie dei dispersi degli anni passati, ma anche di quelli più recenti, come nel caso dei famigliari dei migranti morti e dispersi l’8 ottobre 2017 a causa dello speronamento della loro imbarcazione da parte della Marina militare tunisina.

Vorremmo farlo, però, a partire da una domanda di fondo, forse un po’ scomoda, ma che ci deriva dall’esperienza di questi anni.

Qualsiasi siano state le richieste che insieme alle famiglie abbiamo inoltrato ai due stati implicati nella vicenda, l’Italia e la Tunisia, non abbiamo ottenuto mai, infatti, risposte soddisfacenti, ma solo risposte del tutto parziali, elusive e insignificanti. Da 4 anni, per esempio, stiamo chiedendo che venga effettuata la riesumazione di 5 corpi a Lampedusa, per verificare attraverso il Dna delle madri in Tunisia se si tratti dei corpi di alcune persone morte e disperse nel naufragio del settembre 2012, ma nessuno ha ancora proceduto a farla. E questo, tra l’altro, mentre uno dei vari governi italiani succedutisi nel frattempo ha imbastito la colossale messa in scena del recupero del relitto dell’imbarcazione del naufragio del 18 aprile 2015. Si è recuperato il relitto di quello che per ora, per numero di morti e dispersi, è il più grande naufragio del Mediterraneo dalla Seconda guerra Mondiale, si è proceduto al profilo del Dna dei corpi che vi erano rimasti intrappolati, si sono sprecate conferenze stampa, documentari, reportage, e un’infinità di discorsi su quale dovrebbe essere il luogo giusto dove collocare l’imbarcazione affinché diventi un monito morale rispetto a una delle più forti tragedie del nostro presente: le migliaia di morti e dispersi del Mediterraneo. Tutto questo, mentre lo stesso Stato che attraverso quest’operazione autocelebrava la sua dirittura etica e la sua magnanimità rispetto ai morti del mare, senza mai accennare alla propria parte di responsabilità in tali morti, non era capace di fare un gesto molto più semplice, su cui difficilmente però sarebbero state possibili altrettante conferenze stampa: riesumare 5 corpi e procedere al profilo del Dna per dare una risposta alla richiesta delle famiglie tunisine.

Questa, dunque, la prima constatazione: gli stati non rispondono, non rispondono ai vivi e di tanto in tanto si limitano a celebrare i morti, a “trattarli”, perché rispondere ai vivi rispetto a quelle morti e dispersioni, in questo caso rispondere alle famiglie tunisine, significherebbe ammettere la propria parte di responsabilità in una responsabilità più ampia e collettiva, quella delle scelte politiche dell’Unione europea e di tutti i suoi stati membri rispetto alla mobilità umana. Scelte che prevedono la morte e la dispersione nel Mediterraneo, nei deserti, alle frontiere esterne così come alle frontiere interne dell’Unione Europea, come un fatto strutturale e sistematico per una selezione altrettanto sistematica e strutturale delle persone che possono arrivare, scegliendo il modo in cui farle arrivare: come naufraghi, corpi sopravvissuti, soggetti bisognosi e forse riconoscenti per la propria salvezza. Rispondere ai vivi, in questo caso alle famiglie tunisine con le loro richieste/pretese di messa a disposizione degli archivi di stato rispetto al Mediterraneo e alle operazioni di controllo dei viaggi e degli arrivi dei migranti, significherebbe disvelare sino in fondo quanto la macchina statale sia implicata in quelle morti e dispersioni, avendole forse provocate o lasciate accadere, come è successo in altre occasioni, o, più semplicemente, avendole “viste”, tracciate e archiviate, attraverso uno dei tanti occhi meccanici dispiegati nel Mediterraneo per il controllo e il governo delle migrazioni. Meglio, allora, archiviare quelle visioni meccaniche con altrettanta meccanicità, abbandonandole all’indifferenza del tempo e degli spazi tecnologici di archiviazione, perché un gesto di recupero comporterebbe un gesto e una volontà umani, con il rischio di far vacillare l’intera costruzione di “irresponsabilità meccanicizzata” con cui si archiviano in vista dell’oblio le morti e dispersioni dei migranti.

Non solo dall’Italia, però, ma anche dallo stato tunisino i parenti dei migranti dispersi non hanno ricevuto alcuna risposta: continue false promesse di impegno e l’istituzione di una commissione di inchiesta con tempi lavorativi ritmati non dalla temporalità umana ma dall’eternità, questo è il modo in cui lo stato tunisino ha saputo rispondere ai parenti, cittadini tunisini, rispetto alla loro domanda sulla dispersione, la scomparsa, la morte, forse in mare, forse sul territorio di qualche altro stato, di migliaia di giovani migranti, anch’essi cittadini tunisini prima di scomparire nel nulla. D’altra parte, con gli accordi di partenariato e gli accordi bilaterali, tanto con l’Italia quanto con l’Unione europea e con altri stati membri, la Tunisia, come molti altri stati africani di partenza e attraversamento dei migranti, partecipa, per quanto con funzione ancillare, al governo della mobilità umana disegnato dall’Unione europea che senza quel consenso non avrebbe alcuna possibilità di effettuarsi. Non c’è da stupirsi, dunque, dei silenzi, delle reticenze, con cui, ministro dopo ministro, le famiglie dei migranti hanno dovuto confrontarsi, e dei tempi lunghi, dei continui rinvii con cui è stata istituita una Commissione d’inchiesta. Non c’è da stupirsi che a tutt’oggi tale Commissione non abbia alcun risultato da comunicare alle famiglie, dal momento che la Commissione forse sì, esiste, perché alcuni membri nel corso degli anni li abbiamo pure incontrati, ma le inchieste le abbiamo fatte noi: su che cosa chiedere all’Italia, su quali archivi potessero contenere delle risposte rispetto alle localizzazioni in mare, per capire dove potessero essere seppelliti i morti di alcuni naufragi, quali strumenti tecnologici abbiano potuto conservare le immagini dei viaggi, per trovare le fotosegnalazioni degli arrivi del 2011, mentre persino i membri della Commissione che, di tanto in tanto, abbiamo avuto l’onore di incontrare ci hanno mostrato di ignorare molti dei dettagli del dossier su cui teoricamente avrebbero dovuto indagare.

Questa, come dicevo, la prima constatazione. Nulla di nuovo, del resto. È una constatazione che avevamo già fatto nel lontano 2011 o 2012, dopo i primi incontri ufficiali con le istituzioni dei due paesi, all’epoca in cui le famiglie tunisine avevano avanzato la loro prima richiesta (o pretesa, come preferiamo chiamarla), quella di un confronto delle impronte digitali dei migranti dispersi con le impronte negli archivi delle forze dell’ordine italiani e dei numerosi luoghi di detenzione dopo il loro ipotetico arrivo in Italia. Di nuovo, in questo senso, rispetto alle reticenze e ai silenzi constatati in quel periodo, ci sono solo gli anni trascorsi in cui altre reticenze e altri silenzi si sono aggiunti a quelle e quelli iniziali.

C’è, però, un’ulteriore constatazione da fare, necessaria, e che fa sorgere quella domanda di fondo con cui, come dicevo all’inizio, siamo venuti in Tunisia cercando di capire che cosa fare per continuare a sostenere le famiglie dei migranti dispersi nella loro pretesa di verità. Quegli stati che sono i loro necessari interlocutori, senza le cui risposte non potranno mai arrivare ad alcun elemento di conoscenza rispetto alla sorte dei loro figli, hanno rivelato fino in fondo, nel frattempo, il loro potere criminale quando si tratta di programmare l’agenda del governo della mobilità degli esseri umani. Non democrazie, ma criminalzie è la struttura degli stati membri dell’Ue e dell’Ue stessa nella sua interezza quando si tratta di dirigere, contenere, arrestare, filtrare, bloccare lo spostamento degli esseri umani. Che si tratti dei cosiddetti “migranti economici”, diventati nel frattempo, nelle retoriche delle narrazioni ufficiali, i nuovi delinquenti da combattere, che si tratti dei più mansueti e forse – forse! – “innocenti” migranti in fuga da guerre, nelle scelte politiche dell’Ue e degli stati membri si tratta comunque di contenerne il numero, in tutti i modi e ad ogni costo: con le morti in mare, con i campi di concentramento in Libia, con il sostegno delle milizie libiche che li gestiscono o che gestiscono i pattugliamenti delle coste, con gli accordi con la Turchia, con il silenzio assenso rispetto alla militarizzazione della sua frontiera e all’uccisione dei siriani che vorrebbero attraversarla, con le morti nel deserto, con teatri di guerra estesi e proiettati sempre più a sud nel continente africano: Tunisia, Marocco, Libia, Egitto, ma anche Niger, Etiopia, Sudan, Eritrea….. E, ultimamente, con l’accanimento contro quei pochi che, una volta arrivati, tentano le vie sempre più impervie attraverso cui addentrarsi nei diversi territori degli stati europei.

Che cosa chiedere a simili stati? Non si tratta più, in questo caso, solo dell’estenuazione dovuta agli anni di attesa dinanzi al nulla con cui le due istituzioni statali hanno risposto alle richieste delle famiglie, un nulla certo frammisto a qualche commissione d’inchiesta, ai diversi incontri ufficiali tra i due stati, a qualche incontro concesso alle famiglie e a noi nelle ambasciate o nelle sedi dei ministeri tanto in Italia quanto in Tunisia. Non si tratta di estenuazione, per quanto sia evidente la necessità di fare i conti anche con questa, da parte delle famiglie, ma anche da parte di chi le ha seguite e sostenute nel corso di tutti questi anni. Si tratta di un’ulteriore constatazione, che non può che cambiare il modo di continuare ad essere presenti politicamente per impedire che si copra con un telo di oblio la dispersione e la scomparsa di migliaia di persone. Che cosa chiedere o pretendere da degli stati criminali: criminalzie, ma forse anche demo-criminalzie dal momento che parte sempre più consistente della popolazione di questi stati è favorevole a tali politiche e invoca la repressione, il blocco, il respingimento “in terra, in mare e nell’aria”, come in una riattualizzazione dei fasti d’altri tempi oscuri, di chiunque – uomini, donne, bambini/e – intenda varcare i confini del territorio dello stato, vissuto sempre più come propria proprietà privata. Nulla di strano, allora, che nell’emulazione della democrazia verso cui sarebbe in transizione, sul modello delle democrazie occidentali e europee, la Tunisia cominci a speronare apertamente i propri stessi cittadini, e lo faccia quando forse si trovano già in acque internazionali, dal momento che è proprio in quelle acque che nel corso degli ultimi anni si sono stilati tutti i patti tra stati e stati, tra organismi sovrastatali e stati, tra stati e milizie armate, tra stati e elementi della natura, per muovere guerra e far morire migliaia e migliaia di persone. E’ accaduto l’8 ottobre 2017, con la morte di 54 migranti come conseguenza dell’inseguimento e poi dello speronamento della loro imbarcazione, come testimoniato da numerosi sopravvissuti, increduli dinanzi alla modalità d’azione della Marina militare tunisina e all’atteggiamento di scherno dinanzi alla morte dei loro compagni da parte di alcuni membri dell’equipaggio (http://www.storiemigranti.org/spip.php?article1102).

Proviamo a ripetere allora questa domanda di fondo: constatato che gli stati non rispondono ad alcuna richiesta e che, con totale noncuranza, stanno ormai disvelando scelte politiche e pratiche profondamente criminali nelle modalità di governo della mobilità degli esseri umani, quali parole, pratiche politiche, rivendicazioni e affermazioni possono ancora essere dette e agite sulla sponda Sud del Mediterraneo, innanzitutto da coloro per cui quelle morti e dispersioni sono le proprie morti e dispersioni? Che cosa dire e fare, da parte dei parenti, per non essere ricacciati nei propri spazi privati e ritrovarsi del tutto silenziati, con il proprio dolore muto, non più urlato collettivamente e agito negli spazi pubblici di Tunisi, o di altre città della Tunisia, come è avvenuto, invece, negli anni in cui, nel clima ancora rivoluzionario del Paese, il movimento delle famiglie dei migranti dispersi è stato uno dei movimenti più presenti e rivendicativi?

Certo, non siamo noi a poter dare una risposta. Anzi, impigliati in un’esperienza che si deve confrontare con spazi e margini di azione sempre più ristetti anche nell’area Ue in cui noi abitiamo, e attraversati da un senso se non di impotenza, certamente di inadeguatezza rispetto alla capacità di contestazione delle scelte politiche criminali dell’Ue e dei suoi stati membri, non abbiamo una soluzione già individuata che veniamo qui a proporre.

In quanto abitanti di un altro spazio rispetto a quello a cui appartengono i morti e i dispersi del Mediterraneo e le loro famiglie, abbiamo partecipato, ultimamente, alle sessioni del Tribunale permanente dei popoli sulla “Violazione dei diritti delle persone migranti e rifugiate”, e in parte contribuito alla loro costruzione. Pur valutando positivamente le sentenze che ne sono scaturite, pensiamo però che delle sentenze-denuncia, volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla gravità di quanto stia accadendo, e, eventualmente, a influenzare l’operato di qualche tribunale meno simbolico, possano essere forme di azione utili unicamente in uno spazio in cui si è cittadini degli stati responsabili delle morti e dispersioni del Mediterraneo e spettatori sulla sponda di questa particolare forma di guerra agli esseri umani in movimento. Spettatori, immaginati come ancora bisognosi di essere sensibilizzati dalle sempre più esigue élite antirazziste nelle loro pratiche d’azione. Non pensiamo, invece, che quelle sentenze possano essere proposte con altrettanto rilievo nei luoghi in cui quelle morti e quelle dispersioni siano mancanza, dolore, continua attesa di un ritorno, lutto perpetuo, attraversato dall’incertezza e dal senso di colpa di pensare la morte di chi è “solo” disperso. Di più. Anche vagheggiando che quelle sentenze vengano un giorno pronunciate nelle aule di uno dei tribunali previsti dalla giustizia nazionale e internazionale del mondo occidentale, del tutto restia in realtà a cercare di elaborare nuove categorie giuridiche con cui giudicare i diversi attori responsabili di quelle morti, ci chiediamo, comunque, quale effetto di giustizia potrebbero avere le condanne dei responsabili collettivi (Ue, stati membri Ue, stati africani) e individuali (singole figure politiche istituzionali) per i parenti tunisini, marocchini, eritrei, gambiani, sudanesi, curdi, ghanesi, palestinesi, nigeriani, algerini, etiopi, senegalesi, maliani, siriani, somali, ecc.? Insomma, quale effetto di giustizia sulla sponda Sud del Mediterraneo potrebbero avere delle condanne effettive provenienti dai tribunali del diritto nazionale e/o europeo e/o internazionale?

Non solo. Si può avanzare il dubbio che la messa in scena di una immaginaria giustizia sulle morti e dispersioni nel Mediterraneo, la messa in scena comunque di una giustizia che, per quanto immaginaria, rispetta la forma occidentale della giustizia, la mimesi di un tribunale in assenza dei tribunali reali che sappiano individuare i responsabili di quelle morti e condannarli, abbia degli aspetti di ingenuità. Perché, nell’ipotizzare la propria possibilità di influenza sull’operato dei tribunali esistenti e con forza esecutiva, è incapace di mettere a nudo, sino in fondo, le innumerevoli complicità delle attuali forme di diritto con le criminalzie e i loro crimini.

Ma allora, come procedere in questo spazio, qui, uno dei tanti luoghi sulla sponda Sud del Mediterraneo da cui i migranti morti e dispersi provengono e segnato dal dolore per la loro perdita da parte dei loro parenti? Cosa immaginare, ma più che immaginare, cosa praticare affinché il torto subito da madri, padri, sorelle, fratelli, mogli, mariti, figli, figlie, amiche, amici, conoscenti, possa avanzare le sue pretese se non di riparazione – dal momento che le perdite nel Mediterraneo non possono essere “riparate” – per lo meno di riconoscimento collettivo? Lo ripetiamo, siamo qui per porre queste domande, e provare a capire se si può iniziare insieme alle famiglie dei migranti morti e dispersi un percorso che riesca a indicare le proprie forme di “giustizia” in alternativa alle forme già istituite, tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale, all’interno dell’orizzonte che prevede e produce le morti e le dispersioni.

(22 aprile 2018)

(Il gruppo CarovaneMigranti è un gruppo antirazzista che ogni anno organizza una carovana che porta in giro per varie città e realtà italiane il tema delle migrazioni, della violenza e del razzismo delle politiche migratorie e che si concentra sul problema della scomparsa e morte dei migranti. Nel farlo, collega la situazione del Mediterraneo e delle politiche migratorie dell’Ue alla situazione del Centroamerica, alle pratiche di violenza e alle varie forme di scomparsa imperanti in alcuni stati centroamericani. Durante il viaggio, CarovaneMigranti ospita alcuni testimoni delle realtà in lotta per la verità sulla scomparsa, la morte, l’uccisione dei loro parenti. Quest’anno, dal 28 aprile al 6 maggio, CarovaneMigranti, insieme all’Associazione tunisina “La Terre pour Tous”, sarà in varie città della Tunisia per incontrare i parenti dei migranti dispersi e morti nel Mediterraneo. Il viaggio proseguirà poi lungo una delle frontiere interne dell’Ue, quella tra l’Italia e la Francia, a Bardonecchia, Ventimiglia, nella Valle Roya e a Briançon).