Eguaglianza nell’eredità: audacia e limiti del modernismo tunisino

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Manifestazione a Tunisi per l’eguaglianza nell’eredità Foto di Patrizia Mancini

Thierry Brésillon

La Tunisia continua ad aprire vie inedite nel mondo arabo-musulmano: per iniziativa del capo dello Stato, Beji Caïd Essebsi, il Parlamento sarà consultato in merito a un progetto di legge che mira a emendare il Codice dello Statuto personale (CSP), del quale si è celebrato il 13 agosto il sessantaduesimo anniversario, al fine di instaurare l’eguaglianza nell’ eredità fra uomini e donne dello stesso rango di parentela. Tale misura rappresenta una rottura con la prescrizione coranica, tuttora in vigore, considerata come chiara e non soggetta a interpretazione nella giurisprudenza islamica classica, la quale riserva alle donne solo la metà della parte riservata agli uomini. Sebbene il CSP sia considerato come il testo che più si allontana dalle norme islamiche che regolavano lo statuto personale precedentemente e il più favorevole ai diritti delle donne nei paesi arabo-musulmani (1), Habib Bourghiba, nel 1956, non aveva voluto oltrepassare questa regola per evitare di urtare la sensibilità religiosa dei tunisini. Chi aveva stilato il CSP aveva tuttavia fatto ricorso a una giurisprudenza dello sciismo duodecimano per anteporre le figlie nella linea ereditaria ai fratelli del defunto, in assenza di discendenti maschi, come prevede la giurisprudenza sunnita.

In questa maniera Béji Caïd Essebsi intende continuare l’opera di secolarizzazione di colui che considera come il proprio modello e andare incontro a una vecchia rivendicazione delle associazioni femminili. Tuttavia, preoccupandosi, come il suo predecessore, di tener conto del sentimento religioso, egli propone che la futura legge permetta di derogare dal principio di uguaglianza per via testamentaria optando per il regime anteriore. In questo segue la proposta della Commissione per le libertà e l’eguaglianza (la COLIBE) presieduta da Bochra Bel Hadj Hmida, cui aveva dato incarico di identificare nella legislazione tutte le disposizioni contrarie ai principi di libertà ed eguaglianza enunciati nella Costituzione del 2014, al fine di proporre emendamenti.

La relazione di Bochra Bel Hadj Hmida contiene un centinaio di proposte: abolizione della pena di morte, o restringimento dei casi in cui si applicherebbe; depenalizzazione dell’omosessualtà, o soppressione delle pene carcerarie; definizione precisa delle nozioni di ordine pubblico e di morale menzionate nel Codice penale; proibizione della dote, divenuta ormai simbolica, oppure che la sua assenza non sia motivo per l’annullamento del matrimonio; soppressione dello status di capofamiglia accordato al marito…Il capo dello Stato ha rimesso queste proposte all’esame di una futura commissione.

Ritorno di passioni identitarie

L’audacia dell’annuncio è stata acclamata dalla stampa occidentale. Alimenta la percezione di una Tunisia che non smette di rompere con la religione, rallegra una parte dell’opinione pubblica tunisina, ma ha esarcebato un clima che era già teso. Dalla pubblicazione il 12 giugno scorso della relazione della Colibe, il dibattito pubblico ha fatto rivivere le passioni identitarie e la virulenza delle polemiche degli anni 2012-2013 quando il partito islamista Ennahda era al potere e l’opposizione era terrorizzata all’idea di vedere il paese precipitare verso una teocrazia musulmana. Dopo oltre quattro anni di distensione, le posizioni si sono nuovamente polarizzate fra modernismo secolarista e identitarismo islamico. La paura di vedere l’islam estirpato dalla società ad opera di una élite sottomessa agli interessi occidentali è speculare alla paura di vedere gli islamisti infiltrarsi nello Stato per sottomettere il paese alla chaaria. Fin nelle preghiere del venerdì numerosi imam spargono le voci più inverosimili sulle intenzioni della Colibe: proibire la circoncisione sotto pena di dodici anni di prigione, legaizzare il matrimonio omosessuale, sopprimere i riferimenti all’Islam nella Costituzione, ecc. Insulti e minacce piovono sui membri della Commissione e sulla sua presidentessa in particolare.

Se le passioni si scatenano nuovamente è perché l’annuncio di una riforma nell’eredità per iniziativa del presidente solleva due interrogativi fondamentali, la risposta ai quali non è ancora chiara. Innanzitutto, quale posto riconoscere al riferimento religioso nel diritto positivo dal momento che è impossibile ignorare la sua importanza nella società? E poi, come portare avanti dei cambiamenti a livello della società in un regime che ora è democratico in cui è inimmaginabile fare riforme senza il popolo, se non addirittura contro di lui. Quantitativamente in minoranza, la proposta di riforma dell’eredità delinea controversie essenziali sull’ordine simbolico che tiene unita la società e sulla maniera di governare.

Schizofrenia giuridica

Nessuno può ignorare il posto che ha l’islam nella società tunisina.

In particolare l’influenza della cultura islamica resta importante sulla questione delle libertà individuali e le relazioni fra i sessi.”ritiene Salaheddine Jourchi, membro della Colibe in cui rappresentava una tendenza islamica progressista. “ Bisogna rendere più complessa l’idea di una società profondamente islamica “attenua Wahid Ferchichi, presidente de l’Association pour la défense des libertés individuelles e portavoce della coalizione delle organizzazioni che si mobilitano in favore delle raccomandazioni della Colibe “. Certamente lo spirito maggioritario è religioso, ma gli individui hanno rapporti molto diversi con la religione e a ciascuna tappa nella costruzione dello Stato moderno il diritto tunisino si è svincolato dal quadro islamico.”

Ci è voluto molto tempo, tensioni e scontri culturali per creare uno spazio fra la religione e lo Stato e costruire una nuova struttura, moderna, della società” valuta da parte sua Salaheddine Jourchi.“Ma ogni volta che si avanza in questa direzione, ci si pone la stessa domanda: quale deve essere il ruolo della religione? A questo proposito la legge sull’eredità è uno degli ultimi ambiti regolati dalla tradizione islamica, il che lo rende un definitore identitario”. E una cittadella da espugnare.

Togliendo lo statuto personale dall’influenza del diritto islamico per affidarlo allo Stato, Habib Bourguiba aveva fatto fare, nel 1956, un balzo qualitativo importante alla secolarizzazione del diritto tunisino. Ma non aveva voluto distaccarsi dal riferimento religioso. Al contrario, aveva optato per “una ambivalenza normativa” ed egli stesso si era fatto “mujtahid” (esegeta) per giustificare le innovazioni del CSP. “Bourghiba era consapevole del fatto che la secolarizzazione non avrebbe potuto essere che parziale, soprattutto in un ambito così sensibile come quello della famiglia, luogo di costruzione e affermazione dell’identità religiosa” scrive Faïza Tobich nella sua analisi. Ciò non gli aveva comunque risparmiato critiche virulente da parte delle autorità islamiche tunisine e internazionali e persino una dichiarazione di apostasia da parte dell’imam egiziano Al-Qaradawi (futuro predicatore- star della televisione Al-Jazeera).

Lo CSP ha così lasciato in eredità alla società tunisina “una schizofrenia giuridica che genera disturbi d’identificazione”, sempre secondo Faïza Tobich. Le organizzazioni dell’orbita modernista chiedono da oltre vent’anni di uscire da questa ambivalenza e di basare il diritto di famiglia e le libertà individuali sui valori universali dei diritti umani, ormai consacrati dalla Costituzione del 2014. Il lavoro della Colibe si è ispirato a ciò, anche se ha fatto riferimento alle “finalità” (maqasid) dell’Islam. Nel suo annuncio del 13 agosto scorso Béji Caïd Essebsi non ha provato a fondare la propria decisione su una rilettura dei testi islamici, a differenza di Bourghiba, e si è richiamato con insistenza al carattere civile dello Stato, stabilito dall’articolo 2 della Costituzione. Nella stessa occasione ha messo con le spalle al muro il partito islamo-conservatore Ennahda, sollecitandolo a dare prova della sua conversione ai principi dello Stato civile.

Ennahda messo alla prova

Ora, se uno Stato civile detiene effettivamente il monopolio dell’elaborazione del diritto, niente gli impedisce di attingere la propria ispirazione dalla tradizione islamica, secondo la lettura di Ennahda. La Costituzione che fa dello Stato “ il guardiano della religione” (art.6) viene invocata anche dagli oppositori alla relazione della Colibe per mantenere la definizione delle libertà e dell’eguaglianza nel quadro del riferimento all’Islam , anche a rischio di reinterpretazione. L’ideale, per Ennahda, sarebbe stata una modalità progressiva verso l’eguaglianza nell’eredità, a partire da una nuova esegesi. Anche se nulla garantisce che una tale rilettura dei testi non possa sembrare come un accomodamento politico agli occhi dei guardiani dell’ortodossia e dell’identità.

« La debolezza del campo religioso ha un’importante responsabilità nell’irrigidimento identitario” fa notare Salaheddine Jourchi. “Le scuole religiose nel mondo sunnita attraversano una crisi strutturale e la dislocazione di istituzioni religiose in Tunisia dopo l’indipendenza ha aggravato la situazione. Sono in pochi gli ulema che hanno la volontà di rivedere le antiche letture e la capacità di elaborare un discorso basato sul modo di essere musulmano nel XXI secolo”

D’altra parte Ennahda attraversa certamente una mutazione dottrinale al fine di accompagnare la sua trasformazione in partito di governo, ma il suo radicamento sulle nuove problematiche, in particolare quelle economiche e sociali, è ancora ben lontano all’orizzonte per permettergli di abbandonare le proprie radici storiche nella questione culturale e prendere in contropiede la sua base militante e lo zoccolo duro del suo elettorato. Tanto più che, sicuro dell’attaccamento di una grande maggioranza dei tunisini al riferimento religioso, sa che può far conto sulle voci di numerosi oppositori a una secolarizzazione troppo radicale. Ma pronunciarsi contro l’iniziativa di Béji Caïd Essebsi renderebbe più fragili le conquiste della propria integrazione istituzionale e della sua rispettabilità a livello internazionale.

L’opzione testamentaria, evocata da Béji Caïd Essebsi potrebbe offrire a Ennahda un’ancora di salvezza? « Garantire le due modalità, legale e testamentaria, è perfettamente ammissibile per la religione”, ammette Meherzia Laabidi, deputata di Ennahda e membro della Commissione parlamentare per i diritti e le libertà . Ma quale deve essere il principio e quale l’eccezione? Il riferimento religioso o il riferimento secolare? Su questo “dettaglio” si concentra tutta l’essenza di una scelta identitaria per la Tunisia. Porre la questione in un modo così radicale proietterebbe sulla famiglia tutto il peso di una concezione ideologica. Ora, tale peso simbolico tende a nascondere i meandri delle pratiche che reggono le relazioni famigliari e le dinamiche contraddittorie che le attraversano.

La famiglia, luogo di frontiera

« Nel momento in cui la nostra società è attraversata da profondi sconvolgimenti e le situazioni sociali divengono precarie, la famiglia rimane non solo un punto di riferimento simbolico, ma anche un importante luogo di solidarietà. Occorre perciò intervenirvi con precauzione.” sostiene Meherzia Laabidi. «La famiglia è la cellula essenziale della società e lo Stato deve assicurarne la protezione” così stipula l’articolo 7 della nuova Costituzione . Pur rimanendo il luogo per eccellenza dell’ordine patriarcale, nondimeno essa è attraversata dalle evoluzioni della sua epoca : l’abbassamento della fertilità, «il numero crescente di donne istruite e laureate sul mercato del lavoro rimettono in discussione il sistema patriarcale tradizionale […] che si appoggia sul sostegno delle istituzioni religiose” osserva Karima Dirèche-Slimani. I modelli famigliari, il ruolo delle donne nell’economia della famiglia cambiano, ma le mentalità e le pratiche resistono. Come è riassunto in una testimonianza raccolta dalla sociologa Ilhem Marzouki in uno studio dedicato alle aspettative soggettive delle donneSiamo di fronte al non riconoscimento di quello che siamo diventate , né in seno alla famiglia, né da parte dei mariti,”

Una delle resistenze più evidenti riguarda precisamente l’eredità e l’accesso alla proprietà: molte donne rinunciano alla loro parte nella successione in favore dei loro fratelli, in particolare nell’ambiente rurale in cui è in gioco la terra. « Oggi soltanto il 3,2 % delle donne nelle campagne sono proprietarie, sia che si tratti della terra che lavorano, che del luogo in cui abitano” afferma indignata Bochra Bel Hadj Hmida. “Molte donne hanno dei progetti per quanto riguarda la terra su cui lavorano, ma non hanno accesso al credito perché non hanno un titolo di proprietà”

Anche la legge mantiene la famiglia all’interno del modello patriarcale: il marito è il capo famiglia e ha l’obbligo di provvedere ai suoi bisogni, mentre sempre più mogli percepiscono delle entrate che utilizzano sia per contribuire alla gestione delle spese famigliari, ma senza disporre di uno status che corrisponda al loro ruolo, sia per provvedere ai bisogni della loro famiglia di origine. Questo sovrapporsi di modelli famigliari è fonte di tensioni. Introdurre l’eguaglianza nella successione – e quindi accentuare l’individualizzazione e il carattere nucleare della famiglia senza emendare le altre disposizioni del CSP che conservano l’ineguaglianza nella coppia e la riallacciano al modello di famiglia tradizionale- rischia di accrescere ulteriormente le tensioni e il divario fra la legge e le pratiche.

La famiglia è un luogo- frontiera fra cultura, religione, economia e politica. Rivedere le leggi che la regolano, e in particolare quelle che riguardano la dimensione economica, è un lavoro certosino che richiede di venire a patti con temporalità in contraddizione tra loro : i tempi lunghi dell’evoluzione delle mentalità e della pedagogia sui quali la legge non può agire direttamente, il tempo fossilizzato della dottrina religiosa, i cambiamenti nei ruoli economici, già molto avanti rispetto alla legge, il tempo corto della politica, ritmato dalle fluttuazioni dei rapporti di forza politici che aprono o chiudono a diverse possibilità, le sfide elettorali che acuiscono le intenzioni nascoste e, nel caso attuale, il tempo breve di un presidente a fine mandato. Seguire il ritmo della società quindi non ha veramente senso. Non c’è un momento buono per fare delle riforme, soltanto dei buoni dispositivi.

Re-interrogare le credenze moderniste

In questo campo la nuova democrazia tunisina è ancora alla ricerca di un suo approccio. Essa ha solo come riferimento “il gradualismo” bourghibista: riformare a tappe, secondo quanto sembri possibile in funzione delle condizioni societali e dei rapporti di forza politici. Malgrado il suo sforzo realista, tale metodo proviene da un potere concentrato nelle mani di un leader che soppesa audacia e moderazione, nello specifico secolarità e religione, e si appoggia su una élite ristretta , ma “illuminata”. Da almeno la metà del XIX secolo le riforme sono venute da ambienti percepiti come esterni al paese, mammelucchi formatisi nei palazzi ottomani prima del protettorato francese (1881), élite francofona uscita dalle grandi scuole europee dopo l’indipendenza. « Anche se l’élite conservatrice ha ritrovato un suo proprio ruolo, l’iniziativa della Colibe è ancora una volta una proposta che viene dall’alto”, ammette Wahid Ferchichi.

La promessa democratica richiede altri modelli. Alcuni vorrebbero, con un approccio che si potrebbe definire “ d’accelerazione” (2), applicare senza indugio i principi universali e secolarizzati ai quali si riferisce la nuova Costituzione. In questo atteggiamento l’argomento della complessità del reale viene considerato come una compiacenza essenzialista e “orientalista”nei confronti degli arcaismi. Ma sia Meherzia Laabidi che Bochra Belhadj Hmida sono d’accordo nel ritenere, più o meno negli stessi termini, che “in un periodo di approfondimento delle libertà, provocare il sentimento religioso rischia di irritare l’opinione pubblica e di compromettere tutto il percorso” Salaheddine Jourchi teme persino che la tensione attuale “in un contesto di crisi economica, di incertezza politica e di diffidenza nei confronti dell’élite, apra la via alla predicazione salafita che potrebbe così allargare il proprio pubblico”

L’apertura di spazi di riflessione offre la possibilità alla società civile di trasgredire i tabù per far avanzare le cose e obbligare i politici a occuparsi del problema. Ma ciò non dispensa questi ultimi dal dover concepire buone delibere, dall’identificare priorità e decisioni che permettano di modificare le situazioni nel senso desiderato e dall’affiancare la legge ad una azione pedagogica che dissineschi l’influenza delle ideologie. Il fatto che il progetto di modernizzazione non sia più quello di una élite per una popolazione tenuta in disparte, ma l’espressione di bisogni e desideri del pubblico, costituisce pur sempre l’essenza di un progetto democratico.

Questa nuova esigenza invita i modernisti a interrogarsi sulle proprie credenze nelle virtù della legge come fattore di cambiamento della società. Nel suo studio Ihem Marzouki evidenzia i limiti del “credo […] della rivoluzione per mezzo della legge consacrata come leva di tutti i cambiamenti […], il dogma dell’avanzamento rispetto alla società”. Certamente, ci sono stati cambiamenti nella società , ma “non tali da autorizzare i discorsi pomposi sulla eccezionalità della situazione dei tunisini, bensì modifiche lente, sotterranee e quasi impecettibili.”Per molto tempo i giuristi hanno rivendicato la loro missione di scrivere la storia della Tunisia. Sembra saggio che ad essi si aggiungano le conoscenze dei sociologi per non ripetere gli errori del passato.

Al momento l’annuncio di Béji Caïd Essebsi del 13 agosto 2018 appare solo come un frammento di riforma, senza la certezza di avere una maggioranza parlamentare, fatto in un clima infervorato, contaminato dalle intenzioni politiche nascoste, agitando proposte su soggetti sensibili senza una chiara volontà di darne seguito. Per una trasformazione che migliori la situazione delle donne all’interno della famiglia il grosso del lavoro è ancora tutto da fare.

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1 Almeno fino all’adozione dell Moudawanaa, il Codice di famiglia marocchino, per certi aspetti più favorevole.  

2 per riprendere, in altro contesto, il termine di P Srnicek Nick et Williams Alex, « Le manifeste accélérationniste »Multitudes n° 56, autunno  2014.

L’articolo originale è apparso il 4 settembre 2018 su OrientXXI

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini