Tunisia. La rivoluzione che verrà dovrà essere sociale

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Mohamed Bouaziz Collage dell’artista Erin Currier

Thierry Brésillon

Il 17 dicembre 2010, quando Mohamed Bouazizi s’immolò davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid, non si trattò soltanto del risultato puntuale di una rottura del patto morale implicito fra gli esclusi e le autorità che permetteva ai primi di sopravvivere ai margini della legalità. Fu il sintomo del fallimento sociale di un modello economico di cui l’aggravarsi delle disparità regionali e la disoccupazione erano le manifestazioni più eclatanti. La traiettoria delle rivolte che attraversarono le regioni più colpite dal “processo di destrutturazione del mondo rurale e agricolo e che avevano potuto trarre poco profitto dai frutti della crescita economica (1) delineò i contorni di questa linea di frattura.

La memoria corta

Le vittime del cattivo sviluppo e gli esclusi da una crescita rivolta all’esterno si trovano oggi in una situazione di rottura organica con tutto ciò che compone l’establishment, senza distinzione fra chi è al potere e chi all’opposizione legale. Li considerano responsabili del loro “esilio” sociale e li identificano come garanti e beneficiari di un sistema di valori economici e culturali che li nega. […] Le proteste che hanno scosso la Tunisia da Sud a Nord […] vogliono dire al “pluralismo” che se non si tratta del pluralismo di sostanza, della salute, della casa, dell’educazione, del lavoro e dell’espressione culturale, esso rimane una redistribuzione delle carte, in uno spazio privilegiato. E chiuso. “

Queste righe potrebbero essere state scritte nel gennaio 2011. Invece sono state pubblicate quasi 35 anni fa, in una tribuna aperta dal titolo preveggente: “La memoria corta” da Mohsen Toumi (2), all’indomani delle rivolte del gennaio 1984, quando il potere, seguendo le raccomandazioni del FMI, aveva aumentato il prezzo del pane e della semola. Dopo una settimana di tumulti e di repressione, Habib Bourguiba rinunciò agli aumenti, ma l’orientamento generale dell’economia non subì modifiche: disimpegno dello Stato e ricerca di competitività nell’esportazione, basati sul vantaggio comparativo di una mano d’opera a basso costo e di una fiscalità compiacente.

Nel gennaio 2011 il mondo fece finta di scoprire in quel momento la faccia nascosta del “miracolo economico” tunisino, in realtà conosciuta da molto tempo : profonde disuguaglianze di status e di possibilità, la marginalizzazione delle regioni dell’interno e la captazione delle possibilità d’arricchimento a profitto dei clan protetti dal potere. La liberazione della parola per denunciare il “crony capitalism” (il capitalismo di connivenza) (3) e l’umiliazione dei più miseri da parte di una burocrazia corrotta, la libertà di organizzarsi per rivendicare i diritti sociali e per lanciare delle esperienze sociali liberate dalla tutela di un partito di potere hanno fatto soffiare un vento di rivoluzione sociale attraverso una Tunisia saturata dal sentimento di ingiustizia. Ma gli attori politici abituali hanno rapidamente canalizzato lo slancio popolare e, nove anni dopo, i cambiamenti istituzionali non sembrano aver prodotto neanche una minima  prospettiva di trasformazione economica e sociale, proclama  sbandierato ai manifestanti nel febbraio 2011 (in sit-in permanente davanti alla sede del governo, n.d.T.)  per farli tornare a casa.

Concorrenza nelle alte sfere

Da allora il potere d’acquisto si è degradato, la disoccupazione dei laureati persiste, l’assenza di prospettive per i giovani delle regioni dell’interno e dei quartieri popolari fa riempire i barconi clandestini verso l’Italia, la penuria di latte e di medicine rivela le disfunzioni, senza risposta,  di una gestione antiquata. Sotto pressione, lo Stato tornato ai suoi metodi di gestione della questione sociale per mezzo dell’attesa. La democrazia, da cui si attendeva una imposizione della questione sociale, sembra soprattutto aver reso più concorrenziale la “redistribuzione delle carte in uno spazio privilegiato. E chiuso.”

Durante il primo quinquennato post-transizione l’essenza dell’energia politica è stata assorbita dalla gestione della crisi del partito Nidaa Tounes, uscito vincitore dalle elezioni del 2014, ma, da allora, minato dalle lotte interne dei clan, incapace di strutturarsi e di alimentare un dibattito sulle grandi orientazioni politiche nazionali. La scena pubblica è, dal 2015, occupata dalle manovre per far restare fra le mani del figlio del Presidente della Repubblica, Hafedh Caïd Essebsi le reti di potere costruite da suo padre, per neutralizzare le ambizioni di Youssef Chahed, primo ministro divenuto autonomo agli occhi del capo dello Stato, e rompere la dinamica della nuova alleanza che questi ha concluso con un partito Ennahdha, ben organizzato e rafforzato dalla vittoria, anche se relativa, alle elezioni municipali. A costo di paralizzare l’esecutivo in una crisi politica e a risvegliare i vecchi demoni per esecrare il partito di Rached Ghanouchi.

L’eredità dell’estroversione economica

Altri elementi della diagnosi redatta nel 1984 si rivelano altresì attuali: il cattivo sviluppo, la rottura tra società ed élites, la dimensione culturale della frattura sociale, il carattere confinato del mondo politico e soprattutto l’estroversione. Un termine dimenticato dall’attuale dibattito politico, utilizzato per caratterizzare i capitalismi nati all’indomani dell’indipendenza e che si applica perfettamente alla Tunisia. In poche parole l’estroversione è la concentrazione di tutta la struttura economica per i bisogni del mercato esterno: la produzione, la circolazione delle merci e le infrastrutture necessarie, le posizioni di arricchimento e di potere che essa rafforza.

La Tunisia possiede un punto di forza determinante: il suo affacciarsi sul mare che la connette ai flussi di scambio mediterranei, in particolare con l’Europa. Un vantaggio, certo, ma che, come tutte le fonti di rendita, ha due facce, possibilità o maledizione, a seconda della capacità del potere politico di conservarne i benefici a profitto della nazione e di distribuirli in maniera giusta. Da quando l’Europa si è assicurata la supremazia marittima a partire dal 1820, la Tunisia non solo si è trovata in posizione di inferiorità, aumentata dal potere sempre maggiore dei commercianti europei stabilitisi a Tunisi, ma la dominazione del litorale sul resto del paese è andata accentuandosi. Dopo la spedizione britannica di Lord Exmouth (4) nel 1816 per liberare i prigionieri europei detenuti dai “Barbareschi”, La Tunisia rinunciò alla pirateria e alla cattura di schiavi, due fonti di rendita consistenti per la reggenza. Da allora lo sfruttamento fiscale del territorio è andato aumentando, tanto che progressivamente la produzione agricola e artigianale locale si è trasformata per adattarsi ai bisogni commerciali europei. La colonizzazione non ha fatto altro che generalizzare questo funzionamento: mentre il litorale era il luogo di accumulazione delle ricchezze e delle risorse di potere fornite dalla potenza coloniale  venivano allestite infrastrutture fondiarie, stradali, ferroviarie e portuali per estrarre dal territorio la sua produzione agricola e mineraria (il fosfato). L’estroversione ha così sviluppato una configurazione socio-spaziale, un rapporto estrattivista con il resto del territorio e un élite economica e politica che rappresentava la cerniera fra la dipendenza rispetto alla Francia e la  dominazione nei confronti del resto della società. Effettivamente una pesante eredità.

« Una colonizzazione interna”

Questa breve storia della frattura tunisina mostra a che punto essa sia il prodotto di una lunga accumulazione che ha iscritto profondamente i suoi effetti nella geografia, nelle relazioni economiche interne e internazionali, nelle rappresentazioni di sé e degli altri, nei modi di produzione di potere…Talmente profonda che neppure lo Stato indipendente all’indomani del 1956 riuscirà a sfuggire alla trappola dell’estroversione. La collettivizzazione agricola degli anni ’60 ha rappresentato in realtà più un tentativo per mettere i benefici di un’agricoltura razionalizzata al servizio dell’industrializzazione, in modo da ampliare un mercato interno e arrivare in questo modo ad uno sviluppo più o meno auto-centrato, piuttosto che una convinzione socialista. L’esperienza fu un fallimento e dagli anni ’70 il potere ha cambiato strategia economica, restituendo alle esportazioni il ruolo di fattore di crescita.

In teoria  lo Stato ha tentato, per più di vent’anni, di compensare l’asimmetria fra territorio e litorale per mezzo di un  dispositivo di decentralizzazione economica e lo sviluppo di poli urbani regionali. Sforzi in realtà contrastati dal favoritismo delle élites politiche del Sahel  a beneficio della loro regione. Contrastati ugualmente dalla scelta di mantenere i prezzi agricoli al di sotto di quelli di mercato« in modo da mantenere il costo della riproduzione della forza lavoro impiegata nelle città all’interno dei limiti compatibili con le restrizioni di una politica salariale essa stessa tutt’altro che generosa.” osservava Aziz Krichen nel 1987 (5).

L’adesione al GATT nel 1990 e poi la conclusione di un accordo di associazione con l’Unione Europea nel 1996, hanno definitivamente indirizzato  l’economia verso una  l’estroversione. Nel 1997 il secondo piano nazionale per l’assetto nazionale del territorio abbandonò l’idea di un riequilibrio, al contrario, intendeva massimizzare i vantaggi del litorale in una prospettiva di efficacia economica, considerando l’esodo rurale non più come un freno allo sviluppo, ma come mezzo per disporre di mano d’opera abbondante e variegata nelle città del litorale.

« Il […] piano nazionale di assetto del territorio [ha tirato] una linea di divisione [tra] una Tunisia dell’economia e una Tunisia del sociale, uno spazio del litorale redditizio e uno spazio d”indigenza ,all’interno del paese, da sostenere. “valutava Amor Belhedi nel gennaio 2010.” Non si tratta più di regioni favorite e di altre sfavorite, ma di un paese intero ridotto alla sola capitale che concentra tutti gli sforzi di dotazione e infrastrutture. Il resto del territorio non ha altra vocazione all’infuori del sostegno a Tunisi nel suo scopo di ottenere un posto nello scacchiere della mondializzazione” come analizza da parte sua Ali Bennasr. Una configurazione che Salhi Sghaier, autore di un’opera (in arabo) molto documentata sul soggetto, non esita a qualificare come “colonizzazione interna”.

« Non esiste una questione sociale !”

La questione sociale in Tunisia si è andata costituendo in questi termini: fra concentrazione delle ricchezze sulla costa e protezione delle rendite da parte dello Stato, da un lato, e carità clientelistica per comprare la pace sociale dall’altro e le due in  una relazione asimmetrica di estrattivismo in cambio di fedeltà. Un equilibrio insostenibile che si è rotto il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid (6). Non è tanto la questione sociale che è venuta alla luce con la rivoluzione, piuttosto quella politica. Nel trittico territorio/nazione- politica -Stato/mondializzazione la maniera in cui la politica articola i bisogni e i limiti costituisce la cerniera critica. Dal 2011 il riequilibrio territoriale e sociale è ridivenuto un elemento di legittimazione. Ma di quali strumenti si è dotato? La Costituzione ha imposto il principio di discriminazione positiva a profitto delle regioni sfavorite (7). Ma per mezzo di quali dispositivi? Lo Stato sembra voler riprodurre il volontarismo degli anni ’70, aggiungendovi “l’approccio partecipativo”. Ma da parte di quasi tutte le tendenze politiche, non esiste un pensiero a questo proposito. “Non esiste una questione sociale in Tunisia” si lasciava sfuggire nel 2014 un ex membro della Costituente, appartenente a un partito della sinistra. Più che di una meditata convinzione, si trattava di un sintomo: nel dibattito pubblico non si tratta di una questione politica con il suo corollario di scelte fra opzioni ben precise e antagonismi accettati. E’ invece una questione tecnica sulla quale tutti sono d’accordo. La conseguenza sono sessant’anni di unanimità e paura nel rinnovare le élites.

Nel suo testo del 1987 Aziz Krichen descriveva in questo modo « l’intelligentsia moderna » che aveva sostenuto il movimento nazionale:

“essa ha lottato contro la dominazione francese sul piano politico, ma è stata la miglior garante della perennità dell’egemonia francese sul piano culturale e linguistico […]Nel suo intimo è stata asservita ai valori occidentali: ha interiorizzato la propria inferiorità e la superiorità dell’altro […] Sono insorti, si sono ribellati, non perché si sentivano diversi e perché si identificavano con il loro oppressore, il quale non voleva riconoscerli come uguali.”

L’opposizione fra “modernismo”  e “arcaismo” o “oscurantismo”, un modo per separare il legittimo dall’illegittimo , presenta anche il vantaggio di nascondere le contraddizioni sociali. La nuova élite di governo non proviene più dalla filiera scolastica franco-araba del collége Sadiki, ma, come osserva Layla Dakhli, è passata nelle multinazionali o nelle istituzioni internazionali, cosa che la predispone a integrare le esigenze della estroversione più che le responsabilità dello sviluppo regionale. Persino i nuovi arrivati del partito Ennahda, in cerca di riconoscimento, insistono a iscriversi in questo modello e hanno dimenticato che è stata la distruzione sociale e culturale della società tradizionale, esclusa dalle sfere del potere, che ha colpito storicamente il loro movimento.

La decentralizzazione politica entrata in vigore dalla primavera 2018 non sarà sufficiente a centrare di nuovo l’attenzione delle politiche pubbliche sulla valorizzazione del potenziale regionale, se non si affiancherà a una nuova concezione delle modalità di inserimento nell’economia internazionale, del ruolo economico dei territori, a una ridefinizione del modello di produzione agricola che permetta alle zone rurali di svilupparsi con i propri capitali e di alleggerire la dipendenza alimentare del paese, all’apertura di possibilità d’investimento per le nuove élites economiche, alla creazione di nuovi quadri economici e giuridici per valorizzare i potenziali locali…

Nessuno di queste azioni importanti è stato intrapresa. Ora, senza una forte regolamentazione politica, l’estroversione non può che continuare a produrre ciò che ha sempre prodotto: l’appropriazione dei benefici da parte delle élites del litorale, che continuano ad accumulare posizioni di potere economico, e disparità regionali irreparabili ed esplosive. La probabile firma nel 2019 o nel 2020 di un Accordo di libero scambio completo e approfondito (Aleca) con l’Unione Europea istituzionalizzerà ancora di più l’estroversione economica. Persino i negoziatori europei si lamentano dell’assenza di visione strategica da parte dei loro omologhi tunisini, sui prodotti che vorrebbero proteggere, sulle modalità e i tempi di adattamento dei settori esposti…

In una Tunisia sovraesposta dal 2011 alle ingiunzioni esterne, agli interventi più o meno benintenzionati nei propri dibattiti interni in cui le politiche sembrano trarre la loro legittimità più ai sostegni esterni che agli elettori, la sovranità si annuncia essere il prossimo tema mobilizzatore. Ma per proteggere cosa esattamente? Uno Stato al servizio della rendita e i vantaggi relativi nell’assegnazione delle risorse pubbliche di cui godono i tunisini integri? Oppure osare una vera rottura del paradigma? Una rivoluzione sociale.

Note

  1. Alia Gana « Aux origines rurales et agricoles de la Révolution tunisienne », Maghreb – Machrek, vol. 215, no. 1, 2013, pp. 57-80.

  2. Mohsen Toumi, « La mémoire courte », Le Monde, 10 janvier 1984.

  3. Il capitalismo di connivenza è un’espressione che designa un’economia capitalista in cui il successo negli affari dipende dalle relazioni ravvicinate con rappresentanti del governo(Wikipedia).

  4. All’epoca dei bombardamenti olandesi e britannici della città di Algeri il 27 agosto 1816 (Wikipedia).

  5. Aziz Krichen, « La fracture de l’intelligentsia, Problèmes de la langue et de la culture nationales », in Michel Camau (dir.), Tunisie au présent : Une modernité au-dessus de tout soupçon ?, Iremam, 1987.

  6. Sul contesto di S Sidi Bouzid, leggere l’inchiesta di Mourad Ben Jelloul, Contestations collectives et soulèvement du 17 décembre 2010. La révolte des quartiers populaires de Sidi Bouzid, Les Cahiers d’Emam, 2014.

  7. Articolo 12 : « Lo Stato ha come obiettivo la realizzazione della giustizia sociale, lo sviluppo sostenibile, l’equilibrio fra le regioni e uno sfruttamento razionale delle ricchezze nazionali con riferimento agli indicatori economici e basandosi sul principio della discriminazine positiva; lo Stato opera ugualmente per un buon sfruttamento delle ricchezze nazionali.”

L’articolo originale è apparso su Orient XXI il 17 dicembre 2018

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini