Tunisia: le conseguenze del non voto di fiducia al governo Jemli

Jemli

Habib JJemli crédit AFP

Thierry Brésillon

Il fatto che Habib Jemli non sia riuscito venerdì scorso a ottenere la fiducia per il governo da lui proposto con una votazione che non lascia dubbi (72 voti a favore, 134 contro) avrà delle conseguenze che vanno ben oltre il problema di chi aveva scelto per dirigere le politiche pubbliche dei prossimi anni.

In quest’ottica si allontana anche la prospettiva di fare della presidenza del Parlamento, ottenuta il 14 novembre da Rached Ghannouchi (partito Ennahadha, islamista moderato), uno dei fulcri essenziali del potere.

Innanzitutto si tratta di un duro colpo per Ennahdha che non è riuscito, con la vittoria alle legislative del 6 ottobre (con una maggioranza relativa di 54 seggi), ad arrivare a dirigere il governo.

In alternativa all’occupazione delle tre presidenze (Repubblica, Consiglio e Parlamento ), cui Ghannouchi aveva accennato prima delle elezioni, egli intendeva utilizzare lo scranno più alto del Parlamento per pilotare le istituzioni.

La gestione dell’agenda parlamentare e dell’articolazione con il lavoro del governo gli avrebbe offerto una posizione di regolatore dell’azione dello Stato, compreso il fatto di porsi come agente moderatore delle audacie istituzionali e diplomatiche di un Presidente della Repubblica privo di appoggi in Parlamento.

Le sue prime settimane da Presidente del Parlamento hanno dato un assaggio della svolta inedita che Rached Ghannouchi intendeva dare alla funzione: ha moltiplicato gli incontri diplomatici, ha preso delle iniziative politiche come la riunione con i deputati del Nord Ovest all’indomani di un tragico incidente stradale e l’invito a palazzo di chi stava facendo o sciopero della fame a El Kamour.

Il Bardo, nuovo centro di potere

Quintessenza del regime parlamentare o assorbimento di una parte delle funzioni dell’esecutivo? Ancora una volta il centro del potere si sarebbe così spostato dal Palazzo di Cartagine (sede della presidenza della Repubblica), come fu il caso ai tempi Béji Caïd Essebsi (almeno finché Youssef Chahed non cercò di accrescere la propria autonomia come Primo Ministro),al palazzo del Bardo, sede del Parlamento (tra l’altro ciò proverebbe l’elasticità della Costituzione).

Senza un capo di governo che debba la sua designazione a Ennahdha, tale configurazione è seriamente messa in gioco.

Per la sua realizzazione occorreva risolvere una quadratura del cerchio. Per prima cosa trovare un capo di governo sufficientemente autonomo e credibile per raccogliere consensi, ma abbastanza accomodante per essere in armonia con gli interessi del partito (e soddisfare in questa maniera le esigenze dei suoi militanti di godere della vittoria ed esercitare il potere).

In seguito trovare dei partner in numero sufficiente ad assicurare una maggioranza e abbastanza concilianti da farsi manovrare dal Presidente del Parlamento.

Infine, tradurre in programma di governo il messaggio degli elettori, proporre una rottura con gli orientamenti seguiti finora per realizzare gli obiettivi di progresso sociale, di moralizzazione della vita pubblica e di riappropriazione della cittadinanza.

La logica avrebbe voluto che fosse questa visione, accompagnata da un programma, a guidare la scelta dei mezzi (personalità e alleati). Ma l’arte politica è tutto nell’esecuzione. La scelta dei mezzi, fortemente vincolata ai calcoli tattici, ha avuto la meglio sulla definizione dell’orizzonte da raggiungere. Conformemente alla Costituzione, a Ennahdha si valutava che la designazione del Primo ministro spettasse a loro. Anche se avevano rinunciato al fatto che il primo ministro venisse dai ranghi del loro partito, il percorso per la designazione di una personalità chiamata a dirigere un governo di coalizione è divenuto in questo modo totalmente interno.

Da questa scatola nera, in cui la decantazione dei diversi suggerimenti si è operata secondo considerazioni di apparato, è uscito fuori il nome di Habib Jemli.

Ex sottosegretario all’agricoltura nei governi presieduti da Ennahdha tra il 2011 e il 2014, senza essere interno al partito, più un tecnico che un politico, dalla personalità alquanto sbiadita, Habib Jemli era perfettamente compatibile con gli obiettivi di Ennahdha, ma non aveva una statura tale da convincere significativamente e non incarnava alcuna visione.

Dapprima ha fallito nel tentativo di formare un governo politico, con l’appoggio della Courant dèmocratique (un partito anti-corruzione) e del Mouvement du peuple (nazionalista arabo), entrambi vicini allo spirito di rottura della Rivoluzione e raggruppati in un gruppo parlamentare di 41 deputati.

Ennahdha si è rifiutato di soddisfare le loro richieste di avere i ministeri dell’Interno, della Giustizia e quello della Riforma Amministrativa, proprio quando erano a due passi dall’accordo il 17 dicembre.

Il negoziato si è arenato all’ultimo minuto, in particolare di fronte alla richiesta della Courant dèmocratique di annettere la polizia giudiziaria al Ministero della Giustizia in modo da garantire l’avanzamento delle inchieste e di collegare i servizi di ispezione interna dei vari ministeri a quello della Funzione Pubblica per mettere in opera una vera riforma dell’amministrazione.

Sospetti

Sembra infatti che Ennahdha non desiderasse l’ingombro di figure politiche di primo piano, e neppure di partner così esigenti. Invece di rinunciare, Habib Jemli ha dunque annunciato il 23 dicembre che era sua intenzione formare un governo “di competenze nazionali”, cioè non partigiano.

Quello che ne è venuto fuori è esattamente all’altezza del metodo usato, sempre più impenetrabile, un sacrificio degli obiettivi esterni a favore delle considerazioni interne. Nessuna visione d’insieme: un orientamento economico senza innovazione (dipendenza dalle esportazioni e dagli investitori esteri), mancanza di un approccio strutturale alle ragioni della corruzione, dell’esclusione sociale o dell’espansione del commercio informale, nessuna strategia per un finanziamento alternativo che non sia l’indebitamento…

Una squadra di governo all’interno della quale erano presenti nomi di persone che hanno immediatamente provocato sospetti: alla Difesa un magistrato conosciuto per essere stato, negli anni 2000, il braccio giudiziario delle vessazioni contro la Lega per i Diritti dell’Uomo; agli Interni, l’ex portavoce della procura, sospettato di aver bloccato indagini compromettenti per il partito islamista… Tale formula era risultata talmente poco convincente che Habib Jemli aveva promesso di modificarla dopo la sua investitura e aveva ben poche chances di passare alla prova parlamentare. Questa volta Ennahdha, da sola a dirigere le manovre, non ha potuto contare sugli errori degli altri per compensare i propri.

Il partito di Nabil Karoui, nei giorni precedenti il voto, si è mosso come una banderuola in un folle tira e molla. Alla fine, sentendo il vento che cambiava a sfavore di Jemli, i suoi 38 deputati hanno votato contro il governo, nonostante si prevedesse che avrebbero votato a completamento dei voti di Ennahdha e della coalizione Al-Karama (una formazione più radicale del partito islamista, apparsa in occasione delle ultime elezioni) per raggiungere la maggioranza richiesta di 109.

Nel frattempo Nabil Karoui si era riavvicinato al suo nemico giurato, il Primo ministro uscente Youssef Chahed che aveva tentato di bloccarne la candidatura alla presidenza e cui dava la colpa per le sue noie con la giustizia e i suoi quaranta giorni di detenzione durante la campagna elettorale (Karoui è tuttora oggetto di una inchiesta per uso improprio di fondi e frode fiscale, si trova in libertà condizionata, sottoposto a interdizione di viaggio).

Due forze politiche

Il voto di venerdì sera rappresenta in effetti il prolungamento della ricomposizione del paesaggio politico che aveva cominciato a prodursi con le elezioni.

Nei minuti successivi alla lettura del risultato del voto del Parlamento, Nabil Karoui ha annunciato la creazione di una nuova alleanza parlamentare che riunisce Qalb Tounes, Tahya Tounes (il partito di Youssef Chahed), il gruppo Réforme nationale (presieduto da Hassouna Nafsi, formatosi all’accademia politica del partito di Ben Alì) e il gruppo al-Moustakbal (che comprende 9 indipendenti ).

Con 76 deputati questa alleanza rimane lontana dall’avere la maggioranza assoluta. Nabil Karoui cerca dunque di apparire come il vincitore di questa fase. Ma ora si guarda verso il palazzo presidenziale, poiché sarà il 15 gennaio, data limite costituzionale, che il capo di Stato prenderà le redini per la formazione del governo.

Nessuno conosce per ora le intenzioni di Kais Saied, a che tipo di personalità farà appello, in che misura sarà disposto a conformarsi alle manovre dei partiti e se desideri dare la propria impronta all’orientamento del futuro governo.

Una cosa è certa: non intende rinunciare ai propri obiettivi di dare una traduzione istituzionale e politica alla rivoluzione.

Al di là di una revisione in profondità del sistema rappresentativo, egli tiene a restituire ai cittadini il controllo sulle politiche pubbliche, a creare le condizioni per una reale indipendenza della giustizia, a ristabilire “Lo Stato sociale” (in materia di educazione e sanità), tutti obiettivi piuttosto lontani dalle concezioni neo-liberali della maggior parte dei partiti.

La sfiducia al governo Jemli libera dunque due forze politiche, Qalb Tounes alla testa di un fronte anti-Ennahdha e Kais Saied, finora rimasto discreto, delle quali non si conoscono ancora il peso e le dinamiche rispettive.

Le forze intermediarie (il gruppo formato da le Courant démocratique e il Mouvement du peuple ; il gruppo del Parti destourien libre d’Abir Moussi) hanno guadagnato punti da questi eventi.

Da parte sua Ennahdha si trova isolato, una posizione che ha sempre cercato di evitare sin dal 2011. Un isolamento che, col tempo, potrebbe persino costare il posto di presidente del Parlamento a Rached Ghannouch

A questa ostilità esterna se ne aggiunge una interna, ormai aperta. Il segretario generale Zied Ladhari ha sbattuto la porta lo scorso 28 novembre, dando le dimissioni poiché pensava che il partito non avesse scelto la personalità adatta e ha anche votato contro Habib Jemli.

Il fallimento di venerdì rilancia nuovamente le opposizioni contro Rached Ghannouchi. Il partito, sotto le pressioni esterne e in fase di ricomposizione al suo interno, mentre s’avvicina il congresso teoricamente previsto per il 2020, potrebbe andare incontro a evoluzioni sostanziali. Nell’immediato i suoi voti restano probabilmente indispensabili per la costituzione di una maggioranza e sarà nel suo interesse un riavvicinamento a Kais Saied per proteggersi dagli oppositori.

Infine, non si deve trascurare la possibilità che questa effervescenza permetta la stabilizzazione di una maggioranza necessaria alla formazione di un governo prima del 15 marzo, scadenza costituzionale oltre la quale il presidente della Repubblica ha la facoltà di sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni in cui, questa volta, potrebbe entrare in gioco una forza che sostenga i suoi obiettivi.

L’articolo originale è apparso il 13 gennaio 2020 sul sito Middle East Eye

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini