Crash test per la democrazia tunisina: gestione della pandemia del corona virus

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Tunisi, Avenue Bourghiba Crédit photo AFP

Thierry Brésillon

Anche se il governo ha preso rapidamente delle misure, la pandemia mette alla prova delle istituzioni in rodaggio, un’amministrazione che a volte va in crisi e una società divisa. Un fallimento favorirebbe il ritorno di una soluzione autoritaria.

Da venerdì sera è ufficiale, la Tunisia si è andata ad aggiungere alla lista dei paesi posti in isolamento fino al prossimo 4 aprile : vietato uscire se non per necessità vitali, sospesi gli spostamenti fra le regioni, chiusura delle zone industriali più ampie, versamento di un sussidio per i meno abbienti, lotta contro le speculazioni e le violazioni delle consegne…

Vengono mantenute soltanto le attività economiche vitali. Lo Stato farà anche test su un campione di 10.000 persone per avere un’immagine più chiara dell’estensione della pandemia del nuovo corona virus e prevedere nuove necessità su basi più solide.

Con 75 casi riconosciuti, dieci pazienti ospedalizzati e tre decessi, un focolaio identificato nell’isola di Gerba (messa in isolamento da domenica mattina) e una zona con forte aumento di contagiati a l’Ariana ( una periferia di Tunisi), la Tunisia non è che a uno stadio precoce della pandemia.

Finora la maggior parte dei casi ha riguardato persone venute dall’estero, tunisini rientrati dalla Francia, dall’Italia o dall’Egitto e i loro parenti.

Ma tutti temono il fatidico momento in cui il contagio si diffonderà in maniera orizzontale e la curva salirà per seguire l’andamento degli stati europei. In quel momento gli ammalati arriveranno a decine, se non a centinaia negli ospedali.

Ebbene, un afflusso di pazienti in situazione critica potrebbe rapidamente mettere sotto pressione il settore sanitario. Secondo la testimonianza di un medico rianimatore, con circa 400 posti di rianimazione -forse il doppio, con l’aiuto del settore privato- e di abbondante personale formato, la Tunisia potrebbe reggere, a condizione di aumentare il suo stock di apparecchi per la ventilazione, di procurare il materiale per la protezione per chi presta le cure e, soprattutto, di contenere in maniera seria la trasmissione del virus. Altrimenti, il sistema della sanità pubblica (super indebitato) che ha già mostrato la sua fragilità (la tragedia dei 15 bimbi prematuri morti lo stesso giorno nel marzo 2019 in un ospedale della capitale è ancora viva nella memoria collettiva) potrebbe sprofondare sotto un tale choc sanitario.

Il dispositivo adottato in anticipo

Per evitare un tale scenario all’italiana, le autorità tunisine hanno già intrapreso, sin dal’11 marzo, tutta una serie di misure: auto-isolamento obbligatorio per tutti gli stranieri che arrivano sul territorio, poi chiusura di tutte le frontiere, chiusura delle scuole, dei ristoranti, dei caffè, dei bar dopo le 16, soppressione delle preghiere pubbliche, azioni penali per chi trasgredisce le nuove regole, messa in quarantena sotto costrizione per i recalcitranti, protocollo per l’assistenza e per i test ai casi sospetti e del loro entourage (7500 persone sono in quarantena in questo momento e sono stati somministrati 948 tamponi), un’unica sessione lavorativa di cinque ore nella amministrazione pubblica, disinfezione quotidiana dei luoghi pubblici, mezzi di trasporto, mercati, ecc.

Un arsenale che, in confronto alla totale assenza di reazione in Europa allo stesso stadio della pandemia, mostra uno Stato che ha di molto anticipato le azioni per “appiattire la curva” al di sotto delle capacità ospedaliere. Oltre a tale dispositivo, il presidente Kais Saied aveva annunciato martedì sera l’instaurazione del coprifuoco dalle 18 alle 6 del mattino.

In realtà, una misura che si è rivelata controproducente: i lavoratori si sono stipati all’inverosimile sui trasporti pubblici per rientrare a casa in tempo. Il timore immotivato di un divieto totale di circolazione ha provocato assalti ai camion di farina e semola. Mentre in certi quartieri di Tunisi o al di fuori delle capitale, si è ben lontani dal seguire le consegne alla lettera.

Nonostante alcuni cambiamenti nelle abitudini (file d’attesa davanti ai negozi, anche i più piccoli, sparizione dei bicchieri di vetro nei caffè…), il tallone d’Achille del dispositivo è stato il rispetto degli obblighi di auto-isolamento dei viaggiatori provenienti dall’estero. Le infrazioni sono state numerose.

Dato che l’esperimento non è riuscito a disciplinare tutta la popolazione, le autorità si sono decise alla fine ad adottare una misura più radicale, l’isolamento, applicando delle disposizioni necessarie per attenuare l’impatto sui tunisini più poveri, al fine di evitare episodi di saccheggio o sommosse che provocherebbero un’ immediata crisi sociale che andrebbe ad aggiungersi a quella sanitaria.

In quanto “fatto sociale totale”, una pandemia e la disciplina che impone ai corpi (igiene e distanza) mette alla prova non solo i rapporti sociali e le istituzioni, ma anche il patto fra lo Stato e i cittadini. E’ un buon rivelatore della natura del modo di governare.

Governare per mezzo della paura

La Cina, che costituisce il modello sognato da chi prona una strategia draconiana, è a questo proposito un archetipo: quello dello Stato totale. I termini del patto nel caso cinese sono chiari: la potenza pubblica ha tutti i diritti di fronte ai cittadini per rispondere ai bisogni del collettivo, compresa la coercizione estrema.

Si è visto come questa predisposizione genetica dello Stato cinese l’abbia spinto a usare mezzi colossali e tutta la sua potenza di coercizione e di controllo per sradicare l’epidemia. Ne ha approfittato anche per perfezionare il suo sistema di rilevazioni sociali per determinare il livello virale e i diritti di ciascuno.

I lettori di Michel Foucault vi hanno visto l’applicazione di una biopolitica autoritaria e i principi della società disciplinare che descriveva in “Sorvegliare e punire”: “La città appestata, attraversata tutta da gerarchie, scritturazioni, la città immobilizzata nel funzionamento di un potere estensivo che preme in modo distinto su tutti i corpi individuali – è l’utopia della città perfettamente governata”. In una tale società ciascun individuo è solo un dato numerico sul quale lo Stato ha il controllo, e la sua individualità è dissolta totalmente nel collettivo.

Da quando sembra aver vinto l’epidemia la Cina non cessa di promuovere il suo modello, approfittando della crisi di fiducia, esacerbata dalla pandemia, nei confronti di chi governa nelle democrazie. Gli aiuti materiali, di cui presto beneficerà la Tunisia, servono a implementare un soft power offensivo.

Israele, pioniere del paradigma securitario dell’arte di governare, segue una via simile e dimostra come la fabbricazione di un nemico sia al cuore stesso dei processi politici di controllo delle popolazioni. Benyamin Netanyahou ne ha approfittato per sospendere il Parlamento e accaparrarsi il potere che era sul punto di perdere.

In questo senso il virus è il vettore perfetto del governare per mezzo della paura per fare dello “stato di eccezione” la modalità ordinaria dell’esercizio del potere, poiché trasforma ciascuno in un nemico potenziale e permette di applicare alla maggioranza le costrizioni imposte finora ai margini “minacciosi” e che rivelano la fragilità (o l’illusione) del patto democratico.

Nelle democrazie liberali questo patto si basa su un equilibrio tra libertà individuale e controllo statale per garantire la sicurezza e la vita economica. In tempi normali si tratta di un patto indolore per la maggior parte delle persone. Le situazioni di pericolo acuiscono la controparte statale del patto.

Gli Stati rendono più duro il controllo sulla società e i governanti ne approfittano per andare avanti con i propri obiettivi. Gli individui, da parte loro, reagiscono secondo il tipo di relazione che hanno con il potere e la loro esperienza del pericolo.

La frattura nella società

Cosa rivela questa prova sulla Tunisia e sulla forma del suo patto sociale? Paradossalmente,la richiesta di uno Stato che non tratti, al massimo dei suoi poteri, coercitivo nei confronti di una popolazione “indisciplinata”, proviene da una parte dell’opinione pubblica, più che dallo stesso Stato.

L’insistere nel reclamare un confinamento immediato, “totale!”, il denigrare le misure intraprese dal governo, continuamente giudicate insufficienti, il ritornello “non c’è più lo Stato” mostrano il persistere di una concezione tutelare dello Stato – confutata tramite il modello democratico, dalla rivoluzione in poi – e, per una parte dell’opinione pubblica, dell’assenza di legittimità dei nuovi dirigenti.

Per alcuni questa epidemia è un mezzo per esprimere la loro angoscia latente nei confronti di un ordine sociale perturbato e, senza complessi, anche il loro disprezzo sociale verso le classi popolari, “pericolose” e “indisciplinate”, e con l’occasione esprimere il loro desiderio, se non la nostalgia, di uno Stato autoritario che deve scongiurare la loro paura.

La razionalità apparentemente scientifica e la logica statale dell’isolamento totale si sbarazzano del problema di sopravvivenza dei meno abbienti come fosse secondario , mentre è determinante per rendere le misure efficaci e in una logica di sicurezza umana globale.

Per un’altra parte della società la relazione con lo Stato rimane un mix ambivalente di diffidenza e dipendenza: illegalismo e individualismo refrattario, da una parte, e dall’altra sollecitazione di favori o continui tentativi di strappare una parte della torta di cui Stato “ladro” si è impadronito.

I sacrifici richiesti per scongiurare l’epidemia probabilmente rischiano di essere percepiti dalle classi più modeste come una forma di egoismo sociale da parte degli ambienti che saranno relativamente meno penalizzati , mentre alcuni problemi sanitari molto più mortali del COVID-19, come la salubrità e la penuria dell’acqua in alcuni territori o quartieri periferici, la scarsità di cure mediche, l’inquinamento…non hanno mai mobilizzato lo Stato, né il resto della società.

Le iniziative di sensibilizzazione e di solidarietà sono numerose e mostrano una società, malgrado tutto, pervasa da senso civico, ma solo lo Stato ha i mezzi per prevenire una crisi più grave.

Abbiamo tre obiettivi “ ha dichiarato sabato sera il capo del governo Elyes Fakhfakh “ non lasciare nel bisogno nessun tunisino, non perdere posti di lavoro, né alcuna azienda”

La capacità dell’amministrazione nell’organizzare gli aiuti sociali e quella del governo nel trovare i 2 miliardi e mezzo di dinari (800.000 euro) per finanziare i suo piano di sostegno all’economia, e i 500 milioni di dinari (160 milioni di euro) per il finanziamento delle riserve strategiche, in particolare presso le grandi aziende private, per il momento reticenti, sarà decisiva per evitare che la pandemia aggravi una vecchia e profonda frattura.

Un esecutivo da reinventare

In occasione del suo solenne discorso martedì sera il presidente Kais Saied ha cercato di infondere, tra questa dipendenza e quella diffidenza, una coscienza delle responsabilità nei confronti della collettività e in questa frattura sociale un appello alla solidarietà nei confronti dei meno abbienti.

In questo modo egli prosegue nel suo tentativo di far nascere una “società del diritto”, in cui ciascuno interiorizzerà la necessità della legge, invece che obbedire sotto costrizione.

Molti si sono soffermati al tono, come sempre austero e distante, di un discorso in arabo classico, malgrado l’evidente sincerità dei suoi propositi. La decisione controversa d’instaurare il coprifuoco, che in tutta evidenza non era la sua, ha nascosto la dimensione morale delle sue intenzioni.

Ma questa allocuzione rivela che contrariamente alle intenzioni che qualcuno gli ha attributo, il suo DNA non è quello di un leader autoritario. L’attuale crisi sarebbe stata l’occasione perfetta per presentarsi come autentico detentore della sovranità, anche se in nome del popolo, e instaurare “lo stato d’eccezione”, di attivare l’articolo 80 della Costituzione che gli da pieni poteri in caso di “pericolo imminente”.

Se è vero che egli desidera incarnare una figura di autorità, non è secondo gli schemi arcaici di padre della nazione, di padrone severo o di eroe, origine unica della volontà e la cui parola è dotata di un potere quasi magico di instaurare il reale. Tanto più che le sue difficoltà di comunicazione fanno da schermo ai messaggi che cerca di trasmettere.

In situazioni di crisi, si è dimostrato che il vero polo decisionale è invece rappresentato dal capo del governo. Del resto Elyes Fakhfakh ha annunciato che solleciterà in Parlamento la possibilità di legiferare per decreto durante il periodo di crisi, secondo le disposizioni dell’articolo 70, comma 2 della Costituzione.

Il governo Fakhfakh si gioca la credibilità nei suoi sforzi per contenere l’epidemia e di assorbirne gli impatti economici e sociali. Se il sistema sanitario ammortizzerà lo choc, se l’amministrazione riuscirà a gestire rapidamente i pesanti dispositivi e le situazioni di urgenza, – e ancora meglio, se la crisi fosse l’occasione per accelerare la riforma dello Stato e della sanità pubblica – l’esperienza potrebbe dimostrare come un collettivo decisionale, reattivo, trasparente e responsabile sia più importante di un “padre della nazione”, di un “uomo forte”.

In caso contrario sarà il modello democratico ad essere messo in causa

La prova decisiva

Quale sarà l’effetto di questi eventi sul processo politico?

Finché la pandemia non avrà raggiunto il suo stadio critico, con il livello di panico collettivo che l’accompagna, è prematuro rispondere.

La stigmatizzazione di una popolazione “indisciplinata”, il ritorno dello statalismo suonerà la fine del “momento populista” che hanno rappresentato le scorse elezioni? (« populista » inteso nel suo senso storico , cioè l’inclusione nella pratica democratica di nuove categorie marginalizzate, nel modello sociale e il tener conto della loro esperienza nella elaborazione delle politiche pubbliche).

Oppure questa prova per la società ne rinforzerà uno spirito di solidarietà già presente?

La gestione della crisi senza ricorrere a mezzi di eccezione dimostrerà la robustezza delle istituzioni democratiche o il loro fallimento?

La gestione dell’epidemia è un crash test in vivo per la democrazia tunisina e il modo in cui essa attraverserà questa fase sarà decisivo per il suo avvenire.

L’articolo originale è apparso il 22 marzo 2020 su Middleasteye.net

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini